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Thanatos, la morte in filosofia

Da Platone a Heidegger: il viaggio attraverso la paura dell’ignoto e la negazione della fine nella società contemporanea.

Thanatos per gli antichi Greci era la morte ed era un personaggio maschile, fratello gemello di Ipno, il Sonno, oppure il figlio della Notte, come ci ricorda l’Enciclopedia Treccani. Acerrimo nemico dell’umanità, già nella mitologia greca simboleggia il terrore della morte e dell’ignoto, l’angoscia che entrambi generano.

Anche la filosofia, fin dagli albori, si è occupata del problema del morire in rapporto al significato della vita: cosa significa davvero morire? Esiste una vita altra dopo la morte? Ha senso interrogarsi su qualcosa che per tutta l’umanità è ineluttabile e su cui non possiamo avere informazioni certe? Queste sono soltanto alcune delle domande che i filosofi di volta in volta si sono posti nel corso dei secoli, offrendo le risposte più svariate.

È con la filosofia platonica che nasce l’idea che la morte sia un bene per l’uomo
, che in questo modo si libera delle catene del corpo fisico che imprigiona l’anima. Per Platone, infatti, il corpo, materiale, ostacola l’essere umano nella purezza del suo pensiero, perciò la morte è vista come liberatoria, sia che significhi dissolvenza, sia che significhi reincarnazione. Con l’Epicureismo la filosofia viene ad assumere un orientamento pratico, in cui ciò che è importante è vivere bene, dando il giusto peso al dolore (non dura per sempre, è temporaneo) e al piacere (si raggiunge in maniera piuttosto semplice, se impariamo a distinguere i bisogni necessari da quelli che non lo sono). In quest’ottica viene eliminata la paura degli dei (se anche esistessero non si occuperebbero certamente delle vicende umane) e, cosa più importante, quella della morte, che è qualcosa di inconoscibile. Celeberrimo il passo in cui Epicuro enuncia: “Quando ci siamo noi la morte non c’è, quando c’è la morte non ci siamo noi”, a testimoniare che non c’è bisogno di averne paura perché essa non è che “privazione di sensazioni”, dato che l’anima non è immortale e si disgrega al sopraggiungere della morte, mentre il bene e il male, quindi il piacere e il dolore, derivano per l’uomo proprio dalle sensazioni provate.
Il terrore della morte sta, dunque, tutto nell’attesa, che si trasforma in angoscia dell’ignoto
; vincere questa paura prendendo consapevolezza del fatto che il morire non è niente per l’uomo, secondo Epicuro apre le porte alla felicità, eliminando il desiderio di essere immortali e rendendoci contenti della nostra finitezza temporale. Secondo Seneca, filosofo di epoca romana seguace dello Stoicismo greco, la morte è un evento neutro, né buono né cattivo, che però con il suo sopravvenire è in grado di eliminare tutte le sofferenze umane, presentandosi, quindi, come vera soluzione di tutti i dolori.

Facendo un grande salto temporale e passando alla filosofia contemporanea, si può dire che in qualche modo anche Feuerbach riprenda il punto di vista di Epicuro: ha senso parlare di morte soltanto in relazione alla vita, la morte è, quindi, un non-essere che trova il suo significato soltanto finché si è vivi; è assenza di esistenza, infatti. La morte, infine, diventa un diritto intoccabile dell’uomo quando essa si profila come l’unico modo per eliminare una sofferenza, un dolore intollerabili. Totalmente diversa è, invece, la posizione del grande filosofo tedesco Martin Heidegger, esponente della corrente dell’Esistenzialismo. Secondo la concezione di Heidegger l’essere umano e un esser-ci gettato nel mondo, destinato fin da subito all’ineluttabilità della propria morte, che in questo senso non può che dare forma alla sua vita fin dalla nascita. Il tragico senso di angoscia provato dall’essere umano è, perciò, qualcosa che lo definisce, che lo rende ciò che è e a cui non si può sfuggire, se si desidera vivere una vita autentica, che non è “cura del mondo”, ma cura, o meglio, aver cura di sé e degli altri; autentica e proficua riflessione sul proprio modo di essere nel mondo e per l’altro.

In qualche modo, invece, la nostra è una società che nega la morte e quanto essa comporta sia a livello corporeo che di sensazioni ed emozioni. Thanatos è ancora un tabù, anzi, forse lo è adesso più di prima: un tempo, infatti, il morire era vissuto come un evento naturale che accompagnava lo scandire del tempo… morivano i neonati a causa delle precarie condizioni igieniche e alimentari, morivano le giovani partorienti per mancanza di adeguate cure mediche, morivano in casa gli anziani dopo una vita operosa al servizio della famiglia, morivano i giovani di ambo i sessi a causa di epidemie, guerre, carestie… Tutti eventi dolorosi e perturbanti, certo, ma che nondimeno costringevano l’individuo a fare i conti con la morte, con la sua fisicità e con la ridda di emozioni che scatena, diverse per ciascuno di noi. Adesso, invece, si può dire che la morte, da evento ineluttabile che accomuna tutti gli esseri viventi nel loro destino finale, è diventata qualcosa da non nominare, da normalizzare, da trasformare in accidentale (da cui, quindi, ci si può salvare) o di asettico, astratto, intellettualizzato. Tuttalpiù il morire si può trasformare in spettacolo, come quando vengono condivisi sui social media contenuti agghiaccianti, quali video di incidenti fatali, suicidi ecc. Anche la spettacolarizzazione, infatti, facilita il distanziamento emotivo dal contenuto mostrato, lo trasforma in una sorta di finzione, quasi si trattasse di un film d’azione. La morte-spettacolo appaga, quindi, il desiderio morboso di vedere, tenendoci, al contempo, al riparo dalle forti emozioni che potremmo provare, incluso quel senso di empatia che solitamente proviamo davanti al dolore altrui. è così che riusciamo ad osservare immagini di guerra mentre ceniamo.
Linda Savelli: dottoressa in tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità e filosofa.
Bibliografia di riferimento:
Abbagnano, N. (1993). Storia della Filosofia. Volume primo. La Filosofia Antica (dalle origini al neoplatonismo). Torino: UTET.
Mortari, L. (2019). Aver cura di sé. Milano: Raffaello Cortina Editore.
 
Linda Savelli

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