Rotastyle

TANA TORAJA

"Non è dalla materia delle cose che nasce per noi il loro valore, ma dalla forma che esse assumono nel nostro animo… La morte non è né un bene né un male... è la risoluzione di tutti i dolori ed il confine che i nostri mali non possono valicare"
SENECA, filosofo stoico romano di età imperiale, primo secolo dopo Cristo

"Laudato sii, o mio signore, per nostra sorella morte corporale, dalla quale nessuno può scampare"
FRANCESCO, santo del secolo dodicesimo dell'era cristiana

"Allorchè un monaco va al Signore, è detto nel Grande Rituale ortodosso, il confratello a ciò preposto strofinerà il suo corpo con acqua tiepida, tracciando prima con la spugna un segno di croce sulla fronte del morto, sul petto, sulle mani, sui piedi e sui ginocchi, e niente altro"
DOSTOEVSKIJ, romanziere russo della seconda metà del milleottocento

"Le anime possono andare nel Puya, il regno dei morti, soltanto quando il tomate, lungo e complicato rituale funebre, è interamente compiuto"
POPOLO TORAJA, agosto dell'anno duemilauno
Mentre la processione funebre delle vergini dai larghi cappelli conici di paglia e dei contadini armati di lancia di bambù, con copricapi di seta gialla e sarong di panno nero, mi sfila davanti con ostentata lentezza, non posso fare a meno di pensare al motivo per cui ho deciso di tornare fino quassù a Palawa, South Sulawesi, Indonesia.

Come a dire, in capo al mondo. In Europa, alla morte ci si pensa poco volentieri: evitiamo in genere, a meno di non esservi costretti per qualche dovere sociale, di ricordarne l'ineluttabilità, o di riflettere sulle sue manifestazioni esteriori.
Neppure nel caso ci capiti di leggerne, o di vederla rappresentata alla TV, riusciamo a viverla con piena consapevolezza. Un mio compagno di liceo, che essendo di temperamento piuttosto malinconico ne faceva abitualmente argomento di conversazione quando portava fuori una ragazza, mi confidò più tardi di non aver mai avuto avventure erotiche degne di nota. In definitiva, la morte è un tabù di fronte al quale, piuttosto che adottare un approccio filosofico, o rituale, si fanno in genere gli scongiuri.
A me, purtroppo, nemmeno l'illusorio privilegio di questa negazione scaramantica è concesso: io, medico oncologo di frontiera, quasi ogni giorno sono infatti costretto a parlare con i miei pazienti di questo argomento un po' estremo e assai poco popolare.
Per questo sono tornato quassù: la loro dimestichezza con la morte, ben evidenziata dalla grande importanza che i funerali rivestono nella vita di ogni abitante di Tana Toraja, mi affascina e mi turba contemporaneamente. Ho avuto, nel breve contatto avuto con questa gente durante il viaggio precedente, l'impressione che essi custodiscano gelosamente qualcosa che noi abbiamo perduto, o siamo sul punto di perdere irrimediabilmente.
Questa impressione mi ha spesso visitato, nei sei anni successivi, assieme a molte domande: perché non riusciamo a pensare in modo semplice e consapevole alla nostra morte, come facevano i nostri padri? Perché dire ad un mio paziente che la sua morte si sta avvicinando mi pare, a volte, più un crimine detestabile che un atto di giustizia e di pietà?

Alla fine, ho deciso di tornare. Per capire, o almeno per vivere qualche giorno assieme a gente per cui la morte non è ancora qualcosa da cui fuggire nevroticamente. Il villaggio cerimoniale, costituito da una palizzata esterna di pali e da un cerchio di capanne di bambù su palafitte, decorate con fregi tradizionali di legno istoriato e leggeri festoni di cotone multicolori, è disposto ad anfiteatro attorno alla piazza centrale, dove la sabbia è già intrisa del sangue di alcuni maiali sacrificati nella tarda mattinata, un po' prima del nostro arrivo.
Le capanne, aperte sul davanti come palchi di un teatro dell'opera tropicale, sono affollate all'inverosimile da una folla vestita di bianco e di scuro di ogni età, vecchi imbacuccati un po' assenti e incuriositi, adulti coi baffi dall'espressione solenne, bambini con la pelle dei piedi cosparsa di fango e di croste, figlie della libertà e di un discutibile concetto dell'igiene.
Le donne, numerose e attentissime, siedono vicino ai bambini sui pavimenti di assi di legno, divise in gruppetti famigliari, avvolte in abiti cerimoniali scuri e cariche di monili ingialliti. Ci fanno sedere al posto degli ospiti d'onore, ma solo dopo che ci siamo tolti, con qualche riluttanza, le scarpe. Al centro del cerchio dei padiglioni si alza la torre funeraria, imponente, colorata e sbilenca, gremita di corna di bufalo come uno dei nostri alberi di natale di palline colorate.
Nell'aria, agli odori caldi e appiccicosi della foresta pluviale di altopiano si mescolano il fumo e il sudore, e l'aroma sgradevole delle carni di maiale abbruciacchiate, con la cotenna e tutto, o bollite a grandi pezzi in pentoloni neri come la pece, che farebbero rivoltare Pasteur nella tomba solo a vederne le incrostazioni. C'è un altro odore, in giro, o forse è la mescolanza mal assortita di tutti gli altri, unita al dolore dei parenti dei morti, dolce e vischioso come caramello. Sulle prime, ho cercato di non pensarci troppo su: un medico ai cattivi odori è abituato. Ma poi ho capito, o meglio ho lasciato che la consapevolezza della morte entrasse dentro di me senza trovare resistenze: è l'odore del sangue. Intanto, gli addetti ai sacrifici hanno cominciato a portare dentro la prima coppia di bufali.

Il primo è grigio scuro e piuttosto basso, quasi nano, e ha un'aria assonnata.
Il secondo, invece, solenne e dallo sguardo spiritato, ha una corporatura imponente, di colore più chiaro, e si muove con estrema dignità.
Entrambi sono condotti con una cavezza legata alla grande anella infilata nel naso, e il loro compito principale è rassicurare gli dei sull'importanza dei defunti, affinchè questi, assunta la posizione che gli compete nell'aldilà, possano efficacemente intercedere presso gli stessi a favore dei membri ancora in vita della famiglia.
La pesante e incerta marcia dei bufali nello spiazzo è solo l'ultima tappa di un viaggio incominciato, nel nostro caso, circa sei mesi prima, con la morte per così dire "biologica" del defunto, un uomo di circa sessant'anni, capo di una famiglia eminente di un grosso villaggio della regione. La salma, dopo una adeguata preparazione a base di sostanze speciali per meglio garantirne la conservazione, è stata posta nella stanza posteriore del tongkonan di residenza, una specie di monolocale a forma di croce allungata, dal lungo ed elaborato tetto spiovente a forma di barca polinesiana.
Sul frontone della casa, che appoggia su alte palafitte, è posta una grande scultura di testa di bufalo dagli occhi rossi. Sotto la scultura, decine e decine di paia di corna di bufalo sono disposte fino a terra lungo una colonna di legno: il simbolo del potere della famiglia, nonché il ricordo di decine di passati funerali di appartenenti a Toraja delle vecchie generazioni.
Il defunto ha soggiornato nella casa, assieme ai congiunti, fino a pochi giorni fa; ed in tutto questo tempo ha continuato, anche se il termine suona un po' strano, a vivere insieme a loro. Le donne della famiglia hanno continuato a cucinare anche per lui, le conversazioni serali, al termine del lavoro nelle risaie, lo hanno coinvolto come sempre, ed ha spesso ricevuto visite affettuose da parte dei vicini e dei parenti di altri villaggi. Può persino darsi che, durante tutto questo tempo, qualche turista capitato per caso da quelle parti sia stato invitato a scattargli qualche fotografia.

Il punto è, come si diceva, che le anime possono andare in Paradiso solo quando l'intero rituale funebre è stato compiuto. E non possiamo escludere, aggiungerei io, che i familiari riescano, nel frattempo, a rassegnarsi un po' di più alla perdita del loro caro, prima di dovergli "fisicamente" dare l'addio definitivo. Anche perché, va sottolineato, non hanno certo il tempo di annoiarsi: devono portare a termine i preparativi del funerale, accumulare le centinaia di polli, le numerose dozzine di maiali e le decine di bufali che durante le due settimane di durata della cerimonia verranno sacrificati.
La quantità varia in funzione dell'importanza sociale del defunto. Non è infrequente che più famiglie di rango inferiore, in nome di un bizzarro senso di solidarietà sociale, celebrino congiuntamente i funerali per risparmiare un po' sulle spese. Occorre inoltre radunare tutti i parenti, anche quelli che vivono molto lontano, magari perché immigrati in nazioni straniere: tutta la famiglia deve essere presente, e finchè anche l'ultimo nipote non è arrivato il funerale non ha inizio.
Mentre il primo bufalo, quello più piccolo, chiude gli occhi e si affloscia sulle zampe anteriori senza emettere un solo lamento, con la carotide recisa da un preciso colpo di rasoio, mentre le molte centinaia di persone assiepate nelle capanne lanciano un mugolio di approvazione entusiasta allo sgorgare del primo, potente fiotto di sangue, subito seguito da altri zampilli, via via meno forti, penso a Riccardo. Un caro amico, di pochi anni più vecchio.

Tre giorni prima della mia partenza, un infarto improvviso, nella notte. Anche lui, mi ha raccontato la moglie il giorno del funerale, non ha emesso nessun lamento. Strano, penso con il cuore che batte sempre più forte e le gambe un po' pesanti, mentre scatto una foto dopo l'altra, il bufalo muore e loro ne sembrano entusiasti. Quando hanno fatto il funerale a Riccardo invece, alla grande Certosa di Bologna, tutti non vedevano l'ora di scappare via.
Anche io, anche per me era lo stesso: mi dava fastidio l'interferenza che l'immagine di Riccardo morto provocava nella immagine che avevo ed ho di lui, bello, sempre allegro, ironico e pieno di vita... Intanto, come in una danza dai tempi ben calibrati, l'addetto ai sacrifici conduce al centro dello spiazzo tirandolo per la cavezza anche il secondo bufalo, con gli occhi così spalancati da sembrare oblò di una nave destinata al naufragio.
Le persone sedute sulle assi di bambù di fianco e davanti a noi si agitano, impedendomi di vedere; senza riflettere mi infilo alla meglio le scarpe e salto giù, nella sabbia gialla chiazzata d'erba e di frasche di palma. Continuo a fotografare, mentre il pugnale si abbassa, e il sangue, come un meraviglioso e terribile ventaglio, schizza verso il cielo a pochi metri di distanza, inseguito dall'urlo che proviene dai colorati padiglioni di bambù, che stavolta si prolunga, perché il grande, ostinato bufalo non cade, e scarta di lato cercando di scalciare con i piedi posteriori impastoiati.
Il pensiero ingiustificato che anche Riccardo abbia tentato di fuggire, prima di cadere, si mescola all'immagine epica del poderoso bufalo che tenta invano di resistere alla morte, e all'incitamento barbarico delle mille persone che lo applaudono come se gioissero della sua fine. E forse cercano soltanto, in questo per loro consueto e pio rituale, di esorcizzare quei sentimenti che noi occidentali chiamiamo paura e dolore. Il bufalo, naturalmente, alla fine deve arrendersi e finalmente, dopo aver annaffiato di sangue svariati metri quadrati tutto intorno, cede di schianto, lasciando tutti, all'infuori di noi ovviamente, abbastanza soddisfatti.

Nel frattempo i parenti più stretti del defunto, proseguendo nel cerimoniale, hanno cominciato a distribuire nei padiglioni i dolci di riso, il riso bollito, le carni di maiale abbrustolito, gli involtini di legumi ripieni di riso e così via. La gente mangia con evidente entusiasmo, si vede che per loro si tratta di prelibatezze.
Noi invece più che altro facciamo finta giusto per educazione, non si sa mai che si offendano, visto che siamo gli unici occidentali nel raggio di cinquanta miglia.
I funerali, a Tana Toraja, si tengono solitamente durante la stagione secca, da luglio a settembre, quando i familiari hanno più tempo libero e il cielo è terso. Mirca, la mia carissima e giovane amica-paziente, malata di cancro, è invece morta d'inverno, quando fuori faceva freddo, ed è stata seppellita, nonostante tutti la amassero molto, dopo appena due giorni. Peccato. A lei, sono sicuro, questo posto sarebbe piaciuto molto.
Vorrei che prima o poi potessero vederlo anche i suoi genitori, che ancora, a distanza di due anni, non riescono a darsi pace.
 
Stefano Giordani


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