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Vite parallele

Diego Maradona e Paolo Rossi: due destini segnati da incredibili coincidenze ma anche da profonde divergenze.


Nell'arco di pochi giorni il mondo del pallone è stato scosso per la scomparsa di due leggende del calcio mondiale degli anni '80 del secolo scorso. Diego Armando Maradona "El Pibe" (il bambino) se n'è andato in un'atmosfera di quasi tregenda il 25 novembre 2020, meno di un mese dopo aver compiuto sessant'anni. Paolo Rossi ("Pablito" non, come molti credono, dal 1982 ma già dal 1978 quando in seguito alle sue prodezze nel mondiale argentino il giornalista Giorgio Lago, futuro direttore de Il Gazzettino, lo appella con soprannome che lo accompagnerà per tutta la vita), che di anni ne aveva fatti 64 meno di tre mesi prima, l'ha seguito a ruota il successivo 9 dicembre.

I nostri ricordi di liceo (ahinoi lontanissimi ormai!) ci portano alle famose "Vite Parallele", la magistrale opera di Plutarco in cui lo scrittore, morto a Delfi verso il 125 d.C., accosta la biografia di un eminente personaggio greco a quella di un romano mettendo in evidenza vizi e virtù di ciascuno di essi. Tra le ventitré coppie esaminate sono famose quella Alessandro Magno/Giulio Cesare come pure quella Demostene/Cicerone. Quasi tutte le biografie si chiudono con delle "syncríseis", o confronti, che tendono a sottolineare similitudini e divergenze. E per restare su altri parallelismi, più recenti, si pensi alle famose "convergenze parallele", che potevano scaturire soltanto dalla fervida immaginazione bizantina di Aldo Moro. Tale formula definiva l'ipotesi di una possibile convergenza di intenti tra il suo partito, la DC, ed un partito comunista affrancato dal sinistro e criminale totalitarismo che ne aveva ignominiosamente marcato la storia. Cosa compresa dall’ora segretario del PCI, il sassarese Enrico Berlinguer, che già negli anni '70 si era distinto per la sua indipendenza nei confronti dell'ideologia e degli interessi della famigerata Unione Sovietica.

Ciò che accomuna i due calciatori è il fatto di essere stati entrambi campioni del mondo, alla stessa età di ventisei anni. Paolo Rossi nell'indimenticabile notte di Madrid dopo aver rifilato a Barcellona una tripletta al Brasile, fiore all'occhiello della sua vita di calciatore. Ho fatto piangere il Brasile (intendendo non solo la squadra ma l’intero Paese) è il titolo di una autobiografia scritta a quattro mani con la seconda moglie, la giornalista Federica Cappelletti. Per i brasiliani quell'incontro ha ancor oggi un solo nome: "A tragédia do Sarriá" dal nome dello stadio che ospitò lo storico evento. Una sberla che il Brasile non ha digerito facilmente, tant'è che ben sette anni dopo, nel 1989, un tassista che aveva caricato Pablito in quel Paese per un torneo di ex calciatori, avendolo riconosciuto, lo ha fatto immediatamente scendere accompagnandolo da coloriti insulti. Non tutti i brasiliani sono fortunatamente così. Zico, calciatore e persona elegante, ha osservato che sì Paolo Rossi aveva fatto piangere il suo Paese, ma adesso era lui a piangere per la scomparsa di un avversario stimato ed ammirato. Spirito di cavalleria che, raro nel calcio, è invece profondamente radicato nel mondo della palla ovale, il nostro amato rugby che abbiamo praticato in gioventù, dove non si gioca "contro" qualcuno ma "con" qualcuno il che dal punto di vista semantico è tutt'altra cosa. Purtroppo anche il gioco del rugby è oggi sempre più contaminato dal professionalismo con tutte le conseguenze nefaste che l'irruzione dei quattrini nel mondo sportivo comporta.

Diego Armando Maradona diventa campione del mondo nel 1986 in Messico (seconda vittoria dell'Argentina nel mondiale) coronando così il sogno che aveva da ragazzino: giocare una coppa del mondo e vincerla con l'albiceleste (la maglia bianco-azzurra della nazionale argentina). Tutti ricordano il gol della vittoria segnato con la mano malandrina e "divina" dal ragazzo di Lanús. Ancor oggi certi inglesi, simili al tassista brasiliano, serbano rancore, come testimoniato dagli spregevoli titoli di certa stampa trash in occasione della scomparsa del calciatore. Tanto più che oltre alla rivalità sportiva, in quel momento era più che mai aperta la ferita, ancor oggi non rimarginata, delle isole Falkland (che personalmente preferiamo chiamare con il loro nome argentino di "Islas Malvinas" nome che poi deriva dal fatto di essere state scoperte dai navigatori bretoni di Saint Malo). Qualche anno fa trovandomi a Buenos Aires ho potuto constatare personalmente quanto ancora tale vicenda sia dolorosamente presente nella vita di ogni cittadino. Tanto più apprezzata quindi la famosa "mano de Dios" che punì l'arroganza, quasi genetica, degli avversari ristabilendo una giustizia precedentemente calpestata a favore dei pallonari di Sua Maestà. Ritengo che certi censori d'Oltremanica farebbero bene a riflettere su quanto era successo vent'anni prima in occasione dell'unica, ben più vergognosa, vittoria inglese nel campionato del mondo il cui trofeo era allora la coppa Jacques Rimet, consegnata poi definitivamente al Brasile nel 1970. Quella edizione del 1966 si tenne proprio in Inghilterra, sede scelta dopo varie discutibili vicissitudini. Guarda caso la squadra di casa giocò tutte le partite nel suo giardino di Wembley con la indecente connivenza di un corpo arbitrale incapace e distintosi proprio nella finale contro la Germania per aver concesso agli inglesi due gol, uno molto dubbio e l'altro assolutamente irregolare: non c'era il VAR ma le riprese TV, ancor oggi sono facilmente consultabili, sono inequivocabili.

Altro punto che accomuna i due campioni scomparsi, oltre alla crudele brevità delle loro vite, sono il genio, il talento calcistico. Nello stesso tempo, però, le strade divergono. Così come nell'arte anche nel calcio le espressioni creative sono diverse anche se non meno ammirevoli.

Diego Armando Maradona

Con Maradona siamo di fronte ad un talento naturale innato sviluppatosi in condizioni di vita estrema nella bidonville di Villa Fiorito. Una specie di giungla urbana dove una palla di stracci era l'unico svago concesso ad un ragazzino che scorrazzava nel fango. Lo stesso di cui era fatto il pavimento della catapecchia in cui viveva priva di luce e di acqua salvo quella che veniva giù dal tetto quando pioveva. I genitori si facevano in quattro per procurarsi di che vivere o, per meglio dire, sopravvivere. Il padre, Diego anche lui diventato poi "Don Diego" o "Chitoro", faceva il manovale mentre la madre Dalma Salvadora Franco, "Doña Tota", faceva servizi domestici e la lavandaia in condizioni, è facile immaginarlo, ben diverse da quelle delle nostre colf. Era il quarto figlio, ed il primo maschio, di una famiglia contadina della provincia di Corrientes (ubicata nel Gran Nord argentino) dalle origini amerindie, italiane, spagnole (di Galizia come quello che sarebbe poi diventato un suo amico, ossia Fidel Castro) e croate. Per sua fortuna fu notato, a 10 anni, dal talent scout dell'Argentino Juniors, Francis Cornejo, che lo integrò nella squadra giovanile "Las Cebollitas" (le cipolline). A meno di sedici anni entra in prima squadra e da lì inizia una carriera unica che lo porterà come giocatore ed allenatore in giro per il mondo facendone un multimiliardario. Boca Juniors, Barça, Napoli, Siviglia etc., una storia troppo nota per riparlarne in questa sede.

Rimane, per chi ama il football, il cruccio di non sapere che cosa avrebbe potuto fare come calciatore per poco che avesse avuto "int'a capa", come dicono a Napoli, un po' di quel genio che la provvidenza, anch'essa ingiusta, aveva concentrato quasi unicamente nei suoi piedi. Lui stesso se lo chiedeva pensando lucidamente, e dichiarandolo senza remore, quello che avrebbe potuto diventare se non fosse caduto nel dramma della cocaina (e di tutto il resto). Dramma iniziato a Barcellona propiziato da un giovane collega calciatore già preda del vizio e che avrebbe potuto diventare anche lui, pare, un fenomeno del calcio mondiale anziché finire come un barbone, ammesso che sia ancora vivo. Non me ne ricordo il nome ma non è il caso di contattare l'altissimo ex dirigente del Barça, oltre che personaggio di rilievo nel mondo funerario mondiale, che ci aveva fornito l'informazione. Tanto non cambierebbe nulla.

È stato il più grande calciatore della storia? Domanda oziosa come potrebbe essere quella di sapere se, tra i pianisti, Rubinstein sia stato più grande di Benedetti Michelangeli o di Marta Argerich o di Arrau o del mio rimpianto amico napoletano-parigino Aldo Ciccolini grande interprete di Satie. Quello che è certo è che ci ha affascinati, incantati con certe sue giocate, favorite anche da un baricentro molto basso, che non si sono più riviste dai suoi tempi. Ed è per questo che gli siamo grati oltre che per aver dato ad una città che tanto amo, la diletta Napoli, una forma di riscatto malgrado le ben note piaghe di cui soffre. Un ponte bianco azzurro unisce Napoli all'Argentina ed il sole che risplende nella bandiera di quel Paese è lo stesso che allieta la vita quotidiana del popolo partenopeo.

Lasciamo volentieri agli amanti del gossip ed ai moralizzatori di professione il compito di commentare la tumultuosa vita privata, le paternità multiple, le noie con la giustizia, la droga, le sue prese di posizione politiche male abbinate con un'opulenza sfrenata e, chi più ne ha più ne metta! Ci rimane il ricordo di un ragazzo talvolta divertente, che dicono generosissimo (e vittima dei profittatori che si agglutinano attorno ai miliardari) e che se n'è andato in condizioni a dir poco deplorevoli, anzi sordide, dopo una carriera professionale conclusasi troppo presto a soli 34 anni, salvo qualche sporadica ed insignificante apparizione come nell'incontro Boca-Racing (il nemico giurato dei giallo-blu del Boca) a 37. Si potrebbe pensare che fosse preda di una profonda sofferenza, come d’altronde il caso di molte persone che si drogano. Chi meglio degli Argentini che vivono in un Paese dove c'è la più alta concentrazione mondiale di psicologi, psichiatri e psicanalisti sarebbe in grado di spiegare le origini del suo modo di essere?

Il parallelismo tra Paolo Rossi ed il fuoriclasse argentino si estende anche ad una carriera terminata molto presto: a 31 anni nel caso di Pablito. Tuttavia la vita di Rossi è stata totalmente diversa da quella del Pibe de Oro, caratterizzata dal trito e ritrito binomio “genio e sregolatezza”.

Paolo Rossi

Toscano di Prato seguì il percorso che tanti come lui hanno praticato. L'oratorio, con tutto quello che tale struttura significava mezzo secolo fa, la squadretta di quartiere (in questo caso, a nove anni la Santa Lucia, una frazione di Prato di cui Rossi sarebbe stato presidente onorario fino alla sua scomparsa) e quindi verso i 16 anni la Juventus dove però l'esperienza non fu positiva anche perché incominciarono i guai fisici (3 operazioni al menisco in due stagioni negli Juniores della Juve)  che ne contraddistinsero, accorciandola, la carriera. Esordì in prima squadra il 1° maggio del 1974 in una partita di coppa Italia, contro il Cesena, giocando con Zoff, Gentile e Causio, assieme ai quali sarebbe poi diventato campione del mondo. Dopo un passaggio inconcludente a Como, la svolta del suo destino venne dal successo dell'iniziativa juventina di cederlo al Lanerossi Vicenza in compartecipazione. Col Lanerossi conquistò la promozione in A per piazzarsi l'anno successivo al secondo posto dietro la Juve marcando 24 gol. La sua prestazione convinse il commissario tecnico Enzo Bearzot a convocarlo per il mondiale argentino dove diventerà "Pablito". Nella stagione 1978-79 altro infortunio al ginocchio e retrocessione impensabile del Vicenza, secondo l'anno prima, malgrado le quindici reti segnate da Paolo Rossi, che comunque rimane, passando però in prestito al Perugia, allora in serie A.

Nel 1980 scoppia il "totonero" lo scandalo del calcio-scommesse che finì per coinvolgere, tra tanti dubbi mai del tutto chiariti, lo stesso Rossi. Il tutto a causa di un Perugia/Avellino chiusosi in parità 2-2. Il giocatore, che ha sempre proclamato la sua innocenza, fu squalificato per due anni, ma ciò non impedì al Commissario Tecnico, il cocciuto friulano Enzo Bearzot, uno dei pochi ad essere convinto dell'innocenza del suo uomo, di convocarlo per il mondiale di Spagna.

Nel frattempo aveva continuato ad allenarsi con la Juve di Trapattoni, dov'era ritornato, ed alla fine della squalifica nell'aprile 1982 fece in tempo a giocare tre partite ed a conquistare il ventesimo scudetto della "Vecchia Signora" e quindi di partire, un paio di mesi dopo, per la Spagna tra lo scetticismo ed i commenti poco lusinghieri di molti giornalisti, gli stessi che peraltro, dopo la sua esplosione nel mondiale (capocannoniere con 6 reti)  si prostravano supinamente coprendolo di elogi per strappargli un'intervista (la dignità, lo constatiamo quotidianamente, rimane una qualità rara per non dire rarissima!) Il resto è storia, con onori e riconoscimenti vari tra cui il prestigioso "Pallone d'Oro" di France Football che raramente ha premiato un calciatore italiano (Pablito lo ricevette dopo l’italo-argentino Sivori e Rivera e prima di Baggio e Cannavaro). La fine della carriera fu rapida tra Juventus, lasciata in un clima conflittuale, Milan e Verona.

La notorietà fu universale. Qualche anno dopo il mondiale mi trovavo a girovagare per un paesino dell'interno dello Sri Lanka, ben fuori dai sentieri battuti dai turisti. Stavo chiacchierando con un torinese finito in quel luogo per amore di una bella cingalese e dove aveva aperto un punto di ristoro, il "Torino", per far conoscere a chi vi si fermava non dico la bagna cauda, ma quantomeno una pastasciutta fatta "come Dio comanda". Ebbene un ragazzino resosi conto che ero italiano, mi si avvicinò festoso con l'affascinante sorriso di quelle genti, gridando a squarciagola: "Paolo Rossi"!!! neanche si trattasse di un campione dello sport nazionale del suo paese, e cioè il "cricket", retaggio della dominazione britannica.

Successivamente Paolo Rossi fu candidato alle elezioni europee (nelle file di Alleanza Nazionale, il partito di Gianfranco Fini) e divenne opinionista televisivo e agente immobiliare a Vicenza assieme all'ex compagno di squadra Giancarlo Saivi. Il tutto senza trascurare le molte iniziative di impegno sociale nelle quali era fortemente coinvolto, forse un benefico retaggio degli oratori del tempo che fu! La città berica rappresenta per Paolo Rossi il momento in cui ha spiccato definitivamente il volo verso traguardi che pochi hanno raggiunto. Ad essa è rimasto sempre profondamente affezionato tant'è che pochi mesi orsono gli era stata conferita la cittadinanza onoraria e alla sua scomparsa è stato accolto nello stadio Menti per rendergli omaggio. Dal 2018 era anche membro indipendente del consiglio di amministrazione del Lanerossi Vicenza ed ambasciatore del club.  

La città veneta segna anche l’incontro con due persone che, come Bearzot, hanno giocato un ruolo capitale nella sua vita sportiva: il presidente del Vicenza Giuseppe Farina e Giovan Battista Fabbri l'allenatore che lo "inventò" trasformandolo da ala in centravanti. Ad essi potremmo aggiungere il presidente del Perugia Franco D'Attoma che per primo mise in piedi la "sponsorizzazione di maglia" resasi necessaria per finanziare l'oneroso arrivo in Umbria dell'attaccante (500 milioni a stagione, una somma all'epoca!). Dal 2003 era tornato a vivere in Toscana creandovi un complesso agrituristico a Bucine (AR), località dove oggi riposa dopo gli onori resigli a Vicenza ed a Perugia, la città della moglie.

La sua struttura fisica, 1,74 di altezza per 67 kg., non gli consentiva di essere il centravanti di sfondamento alla Nordhal, alla Vieri o, venendo ad oggi, del triestino Petagna il cui nonno, noto come il nipote anche per le sue numerose conquiste, era stato nei primi anni 50 una bandiera della squadra della mia città, Trieste, allora in serie A. Fu proprio Giovan Battista Fabbri che ne fece il primo centrattacco rapido e svelto. Rossi era un attaccante veloce, molto abile negli spazi stretti dell'area di rigore dove poteva sfruttare le sue doti di tempismo ed opportunismo. Giorgio Tosatti, il grande giornalista figlio di quel Renato, giornalista pure lui, che morì quel dannato 4 maggio 1949 nella sciagura aerea di Superga che annientò il "Grande Torino" (mi ricordo ancora le lacrime di mia madre per la scomparsa di Pino Grezar che aveva abitato nel nostro stesso palazzo e che voleva pigliarmi in braccio quando ci incrociava) lo definì "un impasto di Nureyev e Manolete" un giocatore "con la grazia del ballerino e la spietata freddezza del torero".

Lasciamo la parola a Pablito che così raccontò le sue caratteristiche tecniche: "Io non segno quasi mai di potenza, generalmente conquisto quei due metri che costano il gol all'avversario. Per me è fondamentale il gioco senza palla; lo smarcamento, quando la palla non c'è, è indispensabile. Non ho avuto dalla sorte un grande fisico e mi debbo far furbo". Ed ancora: "…forse sono stato il primo centrattacco rapido e svelto che aveva nelle intuizioni la sua dote principale unita a una tecnica sopraffina. Uno dei segreti del mio successo è stato quello di giocare intelligentemente pensando sempre cosa fare un secondo prima che mi arrivasse il pallone proprio per supplire alla mancanza di qualità fisiche eccelse. Giocare sull'anticipo era una mia grande prerogativa; cercavo sempre di rubare il tempo al mio avversario sfruttando le mie doti di opportunista: in area di rigore cercavo costantemente di sfruttare ogni piccolo errore dei difensori facendomi trovare nel posto giusto al momento giusto". Non credo sia opportuno aggiungere altro a tanta lucidità ed intelligenza.

Recentemente ho letto un magnifico libro ("Az oz" - Il giovane capriolo) che non credo ancora tradotto in italiano, opera di Magda Szabó probabilmente la più grande scrittrice ungherese del secolo scorso. Essa diceva che finché si continua a parlare di uno scomparso questi rimane sempre vivo. Ho buone ragioni per credere che Diego e Paolo saranno immortali.
 
Pietro Innocenti


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