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È BENE GARANTIRE
UNA IDENTITÀ AI MORTI?

Aggirandomi tra le tombe del piccolo cimitero di un antico borgo toscano e costatando che nella maggior parte dei casi i nomi dei morti erano quasi illeggibili per l'azione del tempo, mi è tornata alla mente la domanda che un intelligente operatore di pompe funebri aveva posto durante un convegno sui rituali funebri.


La domanda suonava pressappoco così: "È bene fare in modo che l'identità dei morti sia conservata nel tempo e che i rituali funebri ne tengano conto?".


Certo l'intento di chi si è fatto seppellire in un piccolo cimitero come quello in cui mi trovavo era di restare "qualcuno" per chi ne avrebbe visitato la tomba proprio sapendo che sotto quel cippo c'era il tizio a cui era appartenuta l'immagine di quella foto.
Ma sono bastate tre o quattro generazioni perché la memoria di quel "qualcuno" seppellito lì si sia persa irreparabilmente rendendo quel morto identico, nel suo anonimato, a tutti gli altri morti. Perché altri morti seppelliti altrove non possono certo più ricordare questi morti e visitarne la tomba rinnovandone la memoria!
Sembrerebbe quindi questo tentativo di conservare la propria identità dopo morti qualcosa di vano. E, infatti, la modernità è caratterizzata sempre più dalla constatazione di questa "vanità", che si traduce nelle dimensioni proprie del nostro tempo della destinazione dei morti: dalla trascuratezza e temporaneità del seppellimento in terra con identificazione attraverso nome e foto a cui segue il deposito dei resti in un ossario comune, fino alla dispersione delle ceneri di chi si fa cremare scegliendo di non avere da morto nessuna identità!


Permangono, tuttavia, altri segnali del fatto che garantirsi un permanere della propria identità dopo morti corrisponde ad un profondo bisogno dell'uomo. Basti riferirsi a tre fenomeni molto diffusi:
a) immaginarsi, preparare o addirittura organizzare il proprio funerale da vivi;
b) appassionarsi ai racconti di coloro che si sono risvegliati da un coma, di cui un elemento fondamentale e costante è l'incontro con i propri cari morti che sembrano proprio aver mantenuto, anche dopo morti, la loro identità;
c) cercare di tornare a farsi seppellire nella madrepatria quando si muore lontani, come fanno frequentemente tanti emigranti o come fanno i cinesi che non si fanno mai seppellire nei nostri cimiteri e dei quali si narra che vengano trasportati clandestinamente da morti al loro paese d'origine dalla potente mafia cinese.


Ma perché si vuole mantenere l'identità anche dopo morti?
Credo sia possibile dire molto semplicemente che coloro che cercano di farlo in realtà stanno cercando di affermare la credenza per la quale morire non è cadere nel nulla bensì passare da una forma di esistenza ad un'altra, nella quale si mantiene qualcosa di sé tanto da restare "se stessi". Ecco perché un supporto molto importante in questo tentativo di "vincere" la morte è rappresentato dai rituali funebri concepiti come rituali di passaggio dalla vita terrena all'aldilà.
Stando così le cose, si può rispondere in sintesi nel modo seguente alla domanda se sia un bene garantire un'identità ai morti: "È qualcosa di indispensabile per chi concepisce la morte come un passaggio da una forma di esistenza ad un'altra forma di esistenza, non è utile per chi concepisce la morte come un totale annullamento". Nel primo caso il rituale funebre è sempre in qualche modo un "rito di passaggio", nel secondo caso un servizio igienico di smaltimento del cadavere o, al massimo, un rituale consolatorio per chi resta.


Ovviamente, per chi ha questo bisogno di avere una identità anche da morto, c'è da scontare uno svantaggio nella nostra epoca tutta dominata dall'idea che morte e nulla siano la stessa cosa e impegnata quindi a far dimenticare ai vivi che devono morire (cioè che sono destinati al nulla). Coloro che restano sono impegnati ad occultare il cadavere o a distruggerlo, cambiandone i connotati che lo rendono appartenente a qualcuno, in modo che non sia più per i vivi lo specchio di ciò che li attende.
 
Francesco Campione

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