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emozioni e sentimenti di chi raccoglie i cadaveri

IL DISASTRO DI NEW ORLEANS

Più è grave un disastro e più grande è la "massa" di morti che lascia dietro di sé. Vorrei soffermarmi proprio sugli effetti psicologici del carattere "seriale" con cui la morte si presenta in alcune tragiche situazioni.

Le tragedie che coinvolgono una o poche persone colpiscono e traumatizzano coloro che si occupano a vario titolo dei cadaveri (soccorritori, necrofori, operatori delle pompe funebri e cimiteriali, medici necroscopi, investigatori, ...) in modi differenti a seconda del grado di "ingiuria" dei corpi. Il necroforo che ha dovuto comporre i corpi straziati della madre e del bambino di Novi Ligure uccisi da Erika e Omar è stato traumatizzato dall'orrenda fine che i corpi spezzati gli hanno posto davanti agli occhi.

Inoltre bisogna considerare, per capire la reazione di qualcuno di fronte a qualcosa di orribile, quanto questi sia preparato professionalmente ad affrontare l'orrore, e quanta della pena (compassione) provata di fronte all'orrore sia pena per sé stesso ("non è giusto che mi tocchi vedere certe cose!") e quanta sia invece pena per le vittime ("quello che mi tocca vedere è niente rispetto a quello che le vittime hanno dovuto subire!").

In sostanza, a parità di atteggiamento di fronte all'orrore, i problemi psicologici che dovrà risolvere chi si occupa di un cadavere sembrano dipendere da quanto il disastro ha "disastrato" i corpi delle vittime.

Ma è sempre così o cambia qualcosa quando i cadaveri di cui occuparsi sono tanti?

In primis si può osservare che la serialità tende a rendere i cadaveri tutti uguali nonostante ogni cadavere sia sempre "disastrato" in modo particolare. In altri termini, quando i cadaveri sono tanti diventerà più trascurabile il loro aspetto particolare, e il "peso" emotivo per coloro che se ne devono occupare tenderà a derivare non tanto da come sono "messi", quanto dal fatto che "non finiscono mai". E ciò soprattutto perché la difesa più immediata e più semplice a disposizione di chi deve occuparsi di un cadavere "brutto" (sbarazzarsene al più presto) è resa vana dal fatto che c'è sempre ancora qualche cadavere da eliminare (appunto, non finiscono mai).

Un soccorritore di New Orleans ha dichiarato: "È tremendo: mentre ti stai occupando di far tornare la città alla vita tirando via l'acqua con le idrovore, affiora un cadavere e te ne devi sbarazzare. Ma ne affiorano sempre altri: non finiscono mai!". Anche nei resoconti della cronaca le cose cambiano: nei disastri con molti morti la descrizione dei fatti si sofferma sul presunto numero dei morti e quasi mai sull'aspetto dei cadaveri; diversamente da quando il disastro coinvolge poche persone (in taluni di questi casi si apprendono anche più particolari di quanto si possa sopportare sulle lesioni che i cadaveri hanno subito).

La differenza persiste anche nei casi di disastri di massa dovuti alla "crudeltà" umana: delle stragi della Cambogia o del Ruanda, ad esempio, ci colpisce più il numero dei morti che la sofferenza nel modo di morire individuale; sofferenza che invece ci inorridisce se apprendiamo che qualcuno con nome e cognome è morto sotto tortura.

Abbiamo letto sui giornali che a New Orleans non è stato ancora possibile calcolare il numero dei morti e che si continuano a trovare altri cadaveri man mano che l'acqua defluisce. Allora si è fatta l'ipotesi che i morti siano almeno 10.000 preparando, per precauzione, 25.000 sacchi di plastica per rimuoverli.

Ora il punto è: come ci si può preparare a raccogliere 10 o 25 mila cadaveri senza rischiare di restare emotivamente schiacciati sotto una tale montagna di morti?

Abbiamo il vantaggio di trovarci di fronte a morti anonime che non sono in grado di traumatizzarci come lo farebbero morti che ci toccasse "vedere una ad una" nella loro orrenda immagine. Sulla base di questo vantaggio potremo trasformare nella nostra mente i cadaveri in "rifiuti solidi" da rimuovere per non inquinare le acque, per prevenire le malattie e per risanare l'ambiente di vita dal terribile fetore che emanano. E per rimuovere rifiuti solidi dobbiamo avere mezzi e strumenti adatti, e la professionalità per usarli. Psicologicamente significa è possibile essere coinvolti solo tecnicamente, come professionisti dello smaltimento, senza che così la morte provochi in chi se ne occupa troppa pena, consentendogli di svolgere senza danni il meritevole lavoro di smaltimento. Più ciò avviene in maniera efficace e minori saranno i problemi psicologici degli operatori implicati. Purtroppo esistono situazioni in cui un intoppo rappresenta un limite dell'approccio tecnico e la preparazione professionale può non bastare.

Chissà quante volte nell'inferno umido di New Orleans i soccorritori hanno dovuto strappare dalle braccia di un genitore il cadavere di un bambino morto ormai da tempo!? E chissà quante volte ad un soccorritore non è piaciuta l'indifferenza con cui ha rimosso tanti cadaveri !? Sono i casi in cui la professionalità può non bastare perché la pena per quello che tocca fare è troppo intensa. Solo insieme ad altri si possono affrontare, senza esserne distrutti, l'eccessivo calore dell'orrore o l'eccessiva freddezza con cui si eseguono i compiti tecnici.

La serialità spersonalizza la morte facendola diventare anonima e implica una spersonalizzazione di chi se ne occupa ("che se ne occupi in modo professionale per non esserne distrutto e per poter continuare a fare il proprio lavoro"). La spersonalizzazione regge finché i risultati degli interventi spersonalizzati e professionali sono positivi (si eliminano i cadaveri in tempo utile e si evita una epidemia) o finché il prezzo dell'indifferenza tecnica non è troppo alto (non far violenza ad un genitore a cui bisogna strappare il cadavere del figlioletto prima che abbia preso atto della sua morte; fare ciò che si deve fare con sprezzo del pericolo che si può correre). Quando la spersonalizzazione non regge più (e nessuna via di professionalizzazione più adeguata è aperta) l'unica alternativa consiste nel rendere la situazione più "umana", in modo da contrastare l'eccessiva spersonalizzazione della professionalità senza perdere la professionalità.

Significa, per seguire gli esempi fatti sopra, che:

1. Ci si può chiedere a cosa sia servito rimuovere tanti cadaveri senza pensare che erano esseri viventi (cioè in modo professionalmente indifferente) allorché non si riesce a farlo in tempo utile e scoppia una epidemia. L'addetto alla rimozione dei cadaveri allora si sente inutile e il suo atteggiamento professionale va in crisi facendo emergere la frustrazione personale. L'unica alternativa è allora quella di confrontarsi con gli altri, di chiedere il loro aiuto, e quasi sempre la conclusione sarà che, nonostante il risultato, ci si convinca che fosse umanamente giusto fare quello che si è fatto. Ciò umanizza la situazione (giustifica il farlo non per i risultati, ma perché è giusto) consentendo di continuare a svolgere i compiti professionali perché motivati non dai risultati ottenuti, ma dall'umanità del farlo, dal perché si fa, cioè "perché è giusto e umano".

2. Ci si può chiedere se sia giusto sempre fare quello che si deve fare o se in certi casi bisogna rinunciare; se, ad esempio, sia giusto rimuovere il cadavere di un bambino strappandolo per ragioni igieniche alle braccia del genitore che ha bisogno di tenerselo vicino perché ancora non ha preso atto che è morto. Anche di fronte a questo conflitto chi si occupa dei cadaveri ha l'unica alternativa di uscire dal dilemma tra l'indifferenza tecnica (per cui dovrebbe a tutti i costi rimuovere il cadavere) e la personalizzazione del caso (per cui dovrebbe derogare al suo compito perché dal punto di vista del genitore quello del bambino non è ancora un cadavere). E ne può uscire cercando di "umanizzare" la situazione: prima dovrà riuscire a comunicare al genitore che ha il diritto di voler tener il bambino, poi dovrà fargli accettare che non può tenerlo. E solo dopo averlo aiutato a gestire il suo tremendo dolore potrà dire ad un genitore che ci sono altri da salvare!

3. Ci si può chiedere, infine, se sia sempre giusto andare in giro a rimuovere cadaveri rischiando in prima persona per prevenire una possibile epidemia. In questo caso si passa dall'impersonale rimozione dei cadaveri, in quanto professionisti, alla personalizzazione, in quanto persone che rischiano proprio perché hanno un determinato ruolo. Anche in questo caso, come negli altri due, sarà utile "umanizzare la situazione" cercando di svolgere il compito insieme ad altri e potendo quindi essere da questi difesi dai rischi che si corrono.

 
Francesco Campione

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