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American Beauty

Se la vita non offre una seconda possibilità

"Ho 42 anni. Fra meno di un anno sarò morto. Naturalmente, io questo ancora non lo so. E in un certo senso… sono già morto" Lester Burnham
L’opera prima di Sam Mendes è un ritratto al vetriolo dell’attuale società americana, tutta forma e poca sostanza. O meglio, tutta forma e quasi nessuna verità. “Niente è come sembra” è il mantra che sottende ogni fotogramma della pellicola, ben nascosto all’inizio e poi esploso con prepotenza nel susseguirsi di circostanze che trascinano all’epilogo. Irreversibile.
È irreversibile il destino di Lester, impiegato ingrigito dalla vita che in piena crisi di mezza età dà una scossa, estetica e non, alla propria esistenza. È irreversibile il destino di Frank, colonello dei marines soverchiato da pregiudizi troppo bugiardi per essere superati. Ed è irreversibile in realtà anche il destino dello spettatore, disorientato da questa giostra di personaggi così diversi tra loro che però sono tutte declinazioni di una stessa condanna. Mendes ritrae paranoici, egoisti, deboli, ossessionati dalla carriera e dall’immagine: non emerge alcuna positività in loro e lo spettatore non avverte immedesimazione. Così, quando Lester decide di ribellarsi a questa società dell’estetica e assapora una nuova libertà, gioca male le proprie carte e rimane ingabbiato nella stessa spirale da cui era fuggito. Perde la testa per un’amica della figlia e torna in palestra per poterle piacere; compra una vistosa auto rosso fuoco, lui che di solito nemmeno guidava; viene ucciso per una serie di “fraintendimenti visivi” (niente è come sembra) proprio al momento della sua epifania. Perché epifania non può esserci: Lester ha utilizzato male il proprio gettone e la vita non offre seconde possibilità. Ma questo noi lo sappiamo già.
L’incipit di American Beauty è un breve monologo di Lester, che parla dall’aldilà e racconta i suoi ultimi giorni di vita. La sua è la tipica famiglia americana: un impiegato appiattito dalla monotonia, una agente immobiliare ossessionata dalla perfezione (anche quando pota le rose in giardino), una adolescente insicura e a disagio con il proprio corpo che li odia entrambi. L’evento dinamico è a una partita di basket in cui Burnham junior fa la cheerleader. Qui Lester incontra Angela, una civettuola amica della figlia tutta sorrisi e ammiccamenti (niente è come sembra) da cui si sente subito attratto. La ragazza fa scattare la molla che lo scuote dal torpore e lo illude di poter conquistare una nuova libertà. La sua metamorfosi genera ovvie conseguenze, dal naufragio del matrimonio alla rottura di qualsiasi rapporto con la figlia, ma entrambe le donne sono troppo impegnate ad assecondare le proprie nevrosi per prestarvi attenzione. Così la moglie Burnham intreccia una tresca con il “re dell’immobiliare” Buddy Kane, borioso e presuntuoso, la più diretta e subdola espressione della società americana dell’estetica tanto condannata dal film (“One must project an image of success at all times”, bisogna proiettare un’immagine di successo in qualsiasi situazione). La figlia intreccia invece una relazione più sana (?) con il vicino di casa Ricky Fitts, uno spacciatore appassionato di videocamera che però è l’unico a cercare la beauty che sta dietro alle cose. E a trovarla, paradossalmente, nella morte. L’epilogo è quindi annunciato, e non solo dalla voice over a inizio film.
Una simile vicenda è supportata da un apparato stilistico che rasenta la perfezione. Oscar alla fotografia (pregevoli i giochi di luce nei frames onirici, la cui nebulosità stride con il dettaglio ripetuto del fiore rosso); plauso al montaggio (raffinate le immagini al ralenti che catapultano nella mente di Lester); menzione particolare alla colonna sonora, una sinfonia di percussioni dal timbro sostenuto e cadenzato che nelle sequenze oniriche accentua lo straniamento facendosi più confusa e visionaria.

 

 
 
Laura Savarino
AMERICAN BEAUTY
(USA, 1999)
di Sam Mendes
Durata: 130 minuti
Cast: Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Mena Suvari, Wes Bentley, Peter Gallagher

CURIOSITÁ 
 Uscito nelle sale del Nord America il 15 settembre 1999, American Beauty venne positivamente accolto dalla critica e dal pubblico; fu il film con le recensioni migliori di tutto il 1999 e incassò oltre 350 milioni di dollari nel mondo. Durante la notte degli Oscar del 2000, la pellicola, precedentemente candidata in otto categorie, conseguì il prestigioso riconoscimento in cinque: miglior film, miglior regia (Sam Mendes), miglior attore protagonista (Kevin Spacey), migliore sceneggiatura originale (Alan Ball) e migliore fotografia (Conrad L. Hall).
 
Diversi elementi portarono al film divieti nei Paesi in cui esso venne distribuito: scene esplicite e altrettante allusioni a sesso, droga, nudità, alcolici, infedeltà coniugale, violenza; vi sono inoltre parolacce e riferimenti offensivi nei confronti degli omosessuali. Negli Stati Uniti la Motion Picture Association of America catalogò la pellicola sotto il visto R (Restricted), e solo l’intervento del produttore Steven Spielberg le permise di circolare con la sigla HAQ (High Artistic Quality).

La voce fuori campo di Lester è un richiamo a Viale del Tramonto di Billy Wilder, allo stesso modo raccontato a posteriori con le parole di un personaggio morto.
 
CITAZIONI
“È una gran cosa quando capisci che hai ancora la capacità di sorprenderti. Ti chiedi cos’altro puoi fare che hai dimenticato”.
Lester Burnham (Kevin Spacey)
 
“Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete!”
Lester Burnham (Kevin Spacey)

 

 

 

 

 

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