- n. 5 - Luglio/Agosto 2024
- Arte
Mortificare la vanità
Parliamo delle “vanitas”, nature morte che contengono elementi simbolici che alludono alla caducità della vita.
“
Vanitas vanitatum et omnia vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità) è una frase che ricorre nella versione in latino del Qohelet, uno dei libri sacri della Bibbia.
È proprio il maestro Qohelet a pronunciare questi versi dopo aver riflettuto sulla fugacità della vita materiale concludendo che tutto ciò che abbiamo è pura vanità e tutto, compresa la nostra stessa esistenza, è destinato a finire con la morte. Solo riponendo la fiducia in Dio e osservando i suoi comandamenti possiamo aspirare all’eternità.
Questo motto ha ispirato vari artisti in diversi ambiti, ma trova
un significativo riscontro soprattutto nella pittura, tanto da divenire un filone specifico, le cosiddette vanitas. Si tratta per lo più di nature morte o di personaggi inseriti in ambienti dove sono presenti diversi oggetti. Questo genere pittorico ha conosciuto la sua massima espressione nel Seicento, in particolare in Olanda dove esisteva già una tradizione nel riprodurre scene di vita quotidiana della borghesia. A ciò si aggiunga che in quel secolo ci fu una dilagante e drammatica epidemia di peste che, assieme alle onnipresenti guerre, provocò un senso di profondo smarrimento e la consapevolezza della precarietà dell'esistenza.
Le vanitas sono caratterizzate da elementi ben precisi, tutti simboli dell'effimera condizione terrena. In primo luogo
il teschio, emblema della morte per eccellenza, che ritroviamo nella maggior parte di queste composizioni. Ma anche
candele consumate o strumenti musicali che in quel momento non vengono suonati e che con il loro silenzio rimandano all’assenza di vita. La caducità dell’esistenza viene spesso rappresentata anche da
fiori spezzati o da
frutta che si sta guastando. A volte sono presenti anche
clessidre o orologi che enfatizzano il trascorre del tempo. Altri elementi ricorrenti sono
manoscritti, libri o dipinti, allegorie dei frivoli piaceri dell’uomo. Infine le
bolle di sapone, di solito soffiate da un putto, altra metafora della transitorietà dei beni terreni, oltre che della stessa vita.
Gli Ambasciatori di Hans Holbein il Giovane
Una delle prime e più famose
vanitas è riscontrabile ne
Gli Ambasciatori di
Hans Holbein il Giovane, pittore e incisore svizzero, datata 1533. L’opera, oggi conservata nella National Gallery di Londra, ritrae una scena della visita di Georges de Selve, (a destra nel quadro) vescovo francese poi ambasciatore a Venezia, all'amico Jean de Dinteville, ambasciatore francese a Londra.
Un dipinto ricco di dettagli e di contenuti altamente simbolici. Di particolare interesse sono gli oggetti posti sui due ripiani dello scaffale, che alludono alla bipartizione fra il mondo celeste e quello terrestre. Infatti sul ripiano più alto troviamo quadranti, bussole, astrolabi e un globo blu su cui sono rappresentate le costellazioni, mentre su quello inferiore c’è un altro globo, quello terrestre, dove è raffigurato il sapere geografico dell'epoca. Sono inoltre presenti un libro di aritmetica, uno spartito musicale e un liuto con una corda spezzata, che richiama la disarmonia e l’inesorabile deterioramento delle cose materiali.
Ma
l’elemento più incredibile è quello che a prima vista sembra un oggetto misterioso, una sorta di lama argentea posta in primo piano. Si tratta di un
anamorfismo, ossia di una illusione ottica che fa vedere l’immagine distorta. Infatti se guardata frontalmente rimane incomprensibile, ma
se la si osserva dal lato destro del quadro a qualche metro di distanza, si può chiaramente distinguere un teschio. Un vero colpo di scena (e di genio) che fa sì che l’opera si sveli a poco a poco ponendola al centro di diversi livelli interpretativi. Se in un primo momento il visitatore è colpito dall’opulenza dei due personaggi e dall’eleganza della sala, solo ad un ultimo sguardo, quando si sta allontanando dal dipinto, interviene un cambio totale di prospettiva: il teschio diventa protagonista della scena mettendo in secondo piano tutto il resto. Un memento mori potente a sottolineare che la morte è una verità che trascende i beni materiali e l'illusione dei sensi.
Canestra di frutta di Caravaggio
È una delle opere più famose di
Michelangelo Merisi detto Caravaggio, realizzata alla fine del 1500, che possiamo oggi ammirare nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano.
È una delle prime nature morte, se non la prima, a comparire nella storia della pittura. È vero che anche precedentemente, soprattutto nell’arte classica, sono state ritratte cornucopie e ceste di frutta, ma sempre inserite in scene molto più ampie dove l’elemento umano è predominante e irrinunciabile. Solo con Caravaggio il soggetto inanimato assume una sua centralità e non è più complementare alla figura umana. È
il primo artista che concepisce la natura morta come opera in sé.
Il dipinto mostra una cestina contenete frutti e foglie, definita con grande virtuosismo e precisione analitica, in particolare nei suoi intrecci di vimini. Il canestro è situato in alto rispetto a chi lo guarda e sporge leggermente in avanti trasmettendo un’idea di instabilità e di precarietà. I frutti raffigurati appartengono a stagioni diverse, hanno stadi di maturazione differenti e alcuni sono bacati. Anche le foglie mostrano condizioni diverse: alcune sono fresche, altre si stanno deteriorando, altre ancora sono completamente secche. Tutto ciò è
una allegoria del ciclo della vita e un richiamo alla sua fugacità.
È una vanitas tra le più famose ed incisive, perché l’artista ha saputo rendere con estrema maestria gli effetti dell’inesorabile fluire del tempo.
Altri autori
Il genere
vanitas ebbe molto successo all’epoca, oggi potremmo dire che andava decisamente di moda, e molti sono gli autori che vi si sono cimentati. Tra questi vogliamo ricordare l’olandese
Evert Collier, maestro del trompe-l'œil, e il suo
Autoritratto con
vanitas dipinto nel 1684, o lo spagnolo
Antonio de Pereda e la sua
Allegoria della vanità del 1634 (vedi foto a pag. 77). Nell’opera di Collier sono presenti le immagini più ricorrenti delle
vanitas, come l’immancabile teschio, i libri e gli oggetti che rimandano alla musica e al piacere dei sensi, ma l’
Allegoria della vanità presenta una scena assai più complessa includendo nella parte sinistra del quadro gli emblemi della caducità (i teschi, l’orologio, la clessidra e la candela spenta) mentre sulla destra sono dispiegati oggetti simbolo del lusso, del potere e di una vita basata sulla materialità, quali monete, gioielli, armi e persino carte da gioco. Nel mezzo sta un angelo che, mentre con la mano indica il globo terrestre, ha lo sguardo rivolto al dopo, ad un mondo altro: un ammonimento e un invito a porre i valori spirituali al centro della propria esistenza.
Le
vanitas hanno contribuito all’evoluzione della rappresentazione del memento mori, raffigurato nelle inquietanti danze macabre di epoca medievale, traducendolo in un concetto moderno di natura morta, un modello pittorico che in seguito conoscerà grande fortuna.
Raffaella Segantin