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Dante contro il suicidio

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi

Dante e Virgilio hanno appena attraversato, in groppa ad un centauro, il fiume di sangue in cui sono immersi coloro che peccarono di violenza contro il prossimo: ci troviamo nel VII cerchio dell'Inferno dantesco, quello appunto in cui sono punite le anime dei violenti. Sulla riva del fiume ci si presenta un paesaggio nuovo, diversissimo dai precedenti e da tutti quelli che seguiranno; si tratta di un bosco, o piuttosto di uno sterpeto orribilmente selvaggio: Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; / non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. Non c'è nessuno, ma si sentono levarsi dei lamenti; Virgilio esorta Dante a spezzare uno di quei rami spinosi, ed ecco che dal legno esce una voce, anzi un grido - perché mi schiante? - insieme ad un fiotto di sangue bruno.
Inizia così il celebre dialogo fra Dante e l'anima di Pier delle Vigne, dignitario di altissimo rango presso la corte dell'imperatore Federico II di Svevia. La sua è una storia tragica. Egli era diventato l'uomo di fiducia più vicino all'imperatore - Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo / [...] dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi - e Piero tiene a sottolineare con forza la lealtà incorrotta con cui svolse la sua alta funzione: fede portai al glorioso offizio; il mondo deve sapere (è Dante che deve farlo sapere) quanto ingiustamente l'invidia - morte comune e de le corti vizio - mosse gli altri cortigiani a calunniarlo e ad istigare contro di lui l'ingiusta ed ingrata ira del sovrano. Di qui la disperazione e il suicidio di Piero: L'animo mio, per disdegnoso gusto, / credendo col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto.
La selva costituisce in effetti nel cerchio dei violenti il II girone, dove sono puniti i violenti contro se stessi, i suicidi appunto. A questo proposito importa qui sottolineare almeno due cose. Anzitutto la straordinaria invenzione dantesca dello sterpeto allucinato e squallido in cui quelle anime si sono trasformate, ed il suo significato. È in gioco qui il valore sacrale che ha nella religione cristiana il corpo umano: ne è segno il fatto che le anime dell'oltretomba dantesco, benché ovviamente incorporee, mantengono pur sempre l'aspetto, la figura della persona umana, quasi residuo di dignità nell'abiezione della pena; non così per i suicidi: coloro che vollero distruggere la vita del proprio corpo, creato ad immagine di Dio, sede dell'anima immortale, sono condannati nell'aldilà a perdere quella sacra immagine, ad assumere le sembianze di una degradata e squallida vita vegetale: Uomini fummo, e or siam fatti sterpi. E anche alla fine dei tempi, spiega Piero, quando nel giorno del Giudizio avverrà la resurrezione della carne, e le anime dei dannati e dei beati saranno di nuovo unite ai loro corpi, quelle dei suicidi trascineranno nella selva i loro corpi senza vita, che rimarranno in eterno appesi ciascuno al proprio sterpo, emblema orribile e incancellabile della morte che essi hanno voluto per sé. In secondo luogo, possiamo percepire sullo sfondo del discorso dantesco la distanza che egli assume nei confronti dell'etica pagana antica, pur da lui rispettata ed ammirata in tante figure esemplari; essa poteva giustificare, ed in certi casi esaltare il suicidio "eroico", esempio sommo di coerenza e di fortezza. Non così l'etica cristiana di Dante, per la quale esso è "ingiuria" al valore supremo dell'amore divino e alla sacralità della vita, e di quel corpo che la racchiude.
 
Franco Bergamasco

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