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Una strada bianca, un cipresso

NEBBIA di Giovanni Pascoli

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
"Saggio e beato quell’uomo, che pure in questa vita, sgombro l’animo da ogni inquieta passione, rinunciando ad ogni desiderio e speranza, si acquieta nel pensiero della sua emancipazione finale!": così scriveva Michele Kerbaker presentando la sua traduzione commentata di un antichissimo testo sapienziale indiano, la Bagavadgîta. Una copia di quell’opera era (ed è tuttora) conservata nella biblioteca della casa di Castelvecchio di Barga dove a partire dal 1895 Giovanni Pascoli (1855–1912) andò a vivere insieme alla sorella Maria.
Quel testo dovette rivestire un certo interesse per il poeta, perché pensieri di questo genere (a parte il riferimento ad una possibile felicità) certo erano vicini a molti dei suoi. Lo possiamo constatare leggendo Nebbia, una poesia pubblicata una prima volta nel 1899 e inclusa poi nei Canti di Castelvecchio, la seconda raccolta poetica pascoliana: un libro in cui simboli e suggestioni di morte, peraltro già presenti anche nella sua opera precedente, si fanno più insistenti e profondi.
Ciò che conta è solo il presente, ciò che qui e ora è vicino e si vede: la casa, l’orto, il cane che sonnecchia, e la siepe e "la mura" che separano tutto ciò dal mondo esterno. Anche la nebbia serve a questo, come ossessivamente ripete il primo verso di ogni strofa: a nascondere le cose lontane, lontane nello spazio ma anche nel tempo, immerse nel passato e nel futuro. Il passato è per Pascoli un passato di morte che continuamente vuole ritornare, le molteplici tragedie familiari cui certo allude il v. 8, e anche il v. 14. Ma ebbre di pianto sono forse tutte le cose della vita, anche quelle di un futuro su cui non è dato avere progetti o speranze, un futuro che è meglio non vedere.
È la vita stessa ad essere segnata dal dolore e dal male: questo noi ormai sappiamo anche se il mondo esterno, le cose lontane, ci attirano facendoci ingannevolmente immaginare amori e avventure a cui il nostro cuore vorrebbe volare (v. 20 e v. 26). Dalla vita è meglio invece fuggire rinchiudendosi nel proprio bozzolo, benché esiguo, povero (il nero mio pane).
Quali sono le uniche cose del mondo esterno (ma non tanto lontane…) che la nebbia deve lasciarci intravedere al di là della siepe? Una strada bianca, quella che porta al cimitero, e il suo unico cipresso; quale l’unico momento del futuro a cui ha senso pensare? Il giorno in cui percorreremo quella strada, usciremo sì dal nido, ma senza più vita, accompagnati da un suono di campane che di quella vita esprimerà anch’esso tutta la stanchezza.
 
Franco Bergamasco

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