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Lo Specchio del tempo

Le mummie siciliane di Randazzo esposte in Francia

Il paese di Saint-Jean-de-Côle in Dordogna ha avuto il privilegio di accogliere per tre mesi una favolosa esposizione sulle mummie siciliane di Randazzo inaugurata il 13 maggio 2011 in occasione del quarto Convegno Internazionale di Patografia, una sotto disciplina della paleopatologia (studio medico dei resti umani provenienti da scavi archeologici) che si interessa in particolare degli individui per i quali si dispone di discrete conoscenze bibliografiche. La Mostra è stata realizzata grazie alla collaborazione italo-francese fra due ricercatori, Luisa Lo Gerfo, dottore in archeologia all’università di Pisa, e Philippe Charlier, medico legale presso l’Ospedale Universitario Raymond Poincaré di Garches.
Più di un centinaio di resti di mummie inedite, accompagnati dalla loro documentazione osteo-archeologica, sono stati presentati al pubblico nelle sale dei piani bassi del castello della Marthonie. Le 139 mummie sono state casualmente scoperte, nel 2008, nella chiesa di Santa Maria di Randazzo (in provincia di Catania) e sono state studiate e analizzate scientificamente rivelando alla squadra di ricercatori preziosissime informazioni sullo stato di salute della popolazione dell’epoca, sulle pratiche di abbigliamento, ma anche e soprattutto sui procedimenti di conservazione dei cadaveri. Così si è potuta scoprire l’appassionante storia del rituale siciliano della mummificazione.
La mummificazione è una pratica largamente diffusa nel mondo. Che si tratti di popolazioni del passato o dei giorni nostri, essa si basa sull’idea che il corpo del defunto non debba subire i tormenti della decomposizione che portano l’individuo alla sparizione e all’annientamento. Si vuole quindi salvare il defunto dalla decadenza, sorte inconcepibile agli occhi dei congiunti.
Secondo l’archeologa Luisa Lo Gerfo la pratica siciliana della mummificazione era legata “al desiderio di seppellire i morti vicino ai corpi del martiri e dei santi, nella chiesa o nei suoi paraggi, e si accordava con l’ideologia feudale secondo la quale un santo era un principe eletto di cui il mondo cristiano si considerava come un vassallo. Veniva seppellito sotto l’altare, a fianco del vescovo; poi venivano nell’ordine il principe e i suoi vassalli”. Destinata innanzitutto ai monaci e ai preti questa pratica conquista anche gli strati agiati della popolazione. Condividere una tale vicinanza con la santità aveva infatti un costo che solo i privilegiati dell’epoca potevano permettersi! Raggiunse il suo apice tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo, fino a quando l’editto napoleonico di Saint-Cloud, che promulgava il divieto di inumare nelle chiese, venne applicato anche in Italia (5 settembre 1806). La mummificazione cade allora progressivamente in disgrazia e finisce per scomparire verso la fine del diciannovesimo secolo.

Per conservare volontariamente i corpi dei defunti le famiglie facevano ricorso a diversi sistemi:
  •  la imbalsamazione (per esempio nel sito del Convento dei Cappuccini di Savoca): questa tecnica si basava sullo svisceramento delle cavità toracica e addominale e sul riempimento di queste con paglia e con altre fibre vegetali; 
  • il metodo detto “tranchiniano”: il medico Giuseppe Tranchina (1797-1837) ebbe l’idea geniale di arrivare alla conservazione dei corpi senza alcuna eviscerazione o craniotomia, iniettando dall’arteria carotidea sinistra del cadavere una soluzione composta di arsenico bianco e alcool. Fu quindi il promotore della imbalsamazione chimica! Altre soluzioni furono utilizzate più tardi: il caso più celebre in Sicilia è quello di Rosalia Lombardo trattata con l’iniezione di una soluzione chimica dal medico Alfredo Salafia;     
  • la immersione in bagni di arsenico e di latte di calce: questa tecnica, raramente utilizzata (alcuni corpi dei Cappuccini di Palermo furono trattati in questo modo), consisteva nell’immergere il cadavere in speciali vasche contenenti arsenico o latte di calce. Questo trattamento aveva la caratteristica di dare alla pelle una colorazione rossastra;  
  • la mummificazione intermedia volontaria, chiamata in Sicilia “scolatura” (siti di Savoca, Messina, Riposto o Palermo): si trattava di una tecnica di mummificazione accelerata. L’operazione aveva luogo in camere sotterranee annesse alle chiese. Queste stanze erano spesso dotate di un pozzo per lavare i corpi e di vasche di scolo, luoghi atti a ricevere il cadavere e ad assicurare il suo disseccamento. Esistevano due tipi di vasche di scolo, quelle con seduta in pietra e orifizio centrale e quelle con una vasca e un sistema di tubi orizzontali in terra cotta.
  • Secondo Luisa Lo Gerfo, il metodo della mummificazione intermedia era “empirico”. Si basava “sulla essicazione dei resti mortali, per esteriorizzazione gravitazionale dei liquidi di decomposizione e di putrefazione fino a che il tasso di umidità fosse abbastanza basso da permettere al corpo di mummificarsi a livello delle parti molli”. In realtà spesso “il processo si rivelava inefficace o incompleto e i tessuti non si essiccavano completamente”. Bisogna infine precisare che quando il processo di essicazione era terminato, i corpi delle mummie venivano riempiti di erbe aromatiche e di unguenti dalle virtù disidratanti e odorose e poi posti nelle cripte della chiesa secondo gli usi locali (in piedi, seduti, sdraiati in nicchie o distesi in cofani). Lo stato straordinario delle mummie di Randazzo rivela tutto il savoir-faire dei siciliani nell’arte della conservazione dei defunti.
    La Mostra “Lo specchio del tempo”
    mantiene quindi tutte le sue promesse; presto sarà a Parigi, a Dunkerque e in Canada e invita a un vero e proprio viaggio nel tempo, ai confini delle frontiere dell’immortalità!
     
    Mélanie Lemonnier
    (traduzione a cura di Nara Stefanelli)

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