Nella poesia di Giovanni Pascoli (1855 - 1906) sono spesso i defunti a proporre, a "imporre" in qualche modo la loro presenza ossessiva alla mente, alla memoria del soggetto. Ma in un breve ciclo di poesie, Il ritorno a San Mauro, collocato a chiudere il libro dei Canti di Castelvecchio, pubblicati nel 1903, il movimento è in un certo senso l'inverso. Nel 1897 in effetti il poeta era tornato per qualche tempo in Romagna, nel paese natale, riportandone una impressione che dovette essere assai forte, se così scrisse in seguito in un messaggio ai suoi antichi compaesani: "vi rivedo, vi risento; e rivedo la casetta dove son nato e risento il dolce invito che veniva da morti e da vivi, da uomini e da cose, l'invito a rimanere e riposare, finalmente, dove rimangono e riposano quelli che ho amati".
Ad esemplificare il presentarsi di tale situazione emotiva, immediatamente convertita in ispirazione poetica, basterà rileggere una poesia fra le più note del breve ciclo, La tessitrice, dedicata ad un incontro con una giovane donna che il testo suggerisce, sia pure in modo del tutto vago ed indeterminato, essere stata un amore giovanile del poeta. Solo ai versi 13 e 14 due dettagli, il muto pettine e l'altrettanto muta spola della tessitrice, ovviamente invece ben sonori nella realtà e in altre poesie di Pascoli stesso, cominciano a farci sospettare l'irrealtà della scena, e la vera natura, fantasmatica, della donna. Si tratta di una visione, suscitata nel cuore (verso 21) del poeta dalla memoria, dal ritorno appunto ai luoghi della vita trascorsa. E il pallore della mano, il prevalente silenzio della figura femminile, la stanchezza stessa delle ripetizioni da cui il testo è caratterizzato evocano mirabilmente il profilo non di una persona, ma di un'ombra.
Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'è stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?
Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a sé.
Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: Perché non suona
dunque l'arguto pettine più?
Ella mi fissa timida e buona:
Perché non suona?
E piange, e piange - Mio dolce amore,
non t'hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so;
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormirò.