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Vivere la morte nella comunità italiana del Canton Vaud

Sincretismi culturali e rituali

Il processo migratorio contribuisce a modificare l'apparato rituale e tradizionale dell'individuo, e della collettività cui esso appartiene, non solo nelle abitudini più quotidiane (lingua, abbigliamento, cucina), ma anche in particolari momenti che scandiscono la vita umana, fra i quali la morte. Sebbene il migrante porti con sé un determinato sistema di pratiche e di credenze legate al vivere e al concepire la morte secondo la cultura di appartenenza, la dinamica che determina la sua condizione  modifica la percezione con cui la morte viene pensata e i dispositivi rituali con cui essa viene vissuta. Ciò genera una condizione sincretistica che determina, nei soggetti immigrati, la convivenza fra la tradizione importata dalla società d'origine, la cultura del paese di approdo e la creazione di una terza identità, risultante dal connubio delle due precedenti attraverso un processo di adattabilità o di opposizione alle logiche locali.
È quanto sembra accadere tra alcuni immigrati italiani del Canton Vaud, in Svizzera, precisamente nell'area di Lausanne e di Renens, dove si registra la più alta concentrazione di abitanti provenienti dall'Italia. Costoro, giunti nel momento della cosiddetta "prima fase migratoria" (1950-1960) dal Sud Italia (prevalentemente da Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna), si sono insediati in determinati quartieri e zone della città, riproponendo, in piccolo, le comunità lasciate nel paese di origine.
Un esempio sono le Missioni cattoliche, i circoli culturali, le associazioni che portano il nome della regione o quello della città di provenienza ("Nuraghe" la comunità sarda, "Giovanni Verga" quella siciliana, la Colonia Libera Italiana) in cui gli immigrati, soprattutto di prima generazione, sono soliti ritrovarsi nei giorni festivi o negli orari liberi dal lavoro. Ad una comune macro dimensione, in cui rientra la condizione di tutti gli immigrati italiani in Svizzera, si aggiungono le micro storie domestiche di ciascun migrante e della propria famiglia: pur riconoscendosi tutti, pubblicamente, nell'identità quanto mai labile di immigrato ed emigrato, privatamente ciascuno tende a mantenere e a preservare le proprie abitudini e le proprie tradizioni d'origine.
Ciò è vero soprattutto per le donne di prima generazione, giunte nel canton Vaud a seguito di ricongiungimenti familiari con i mariti primi-migranti. Detentrici del costume tradizionale, le donne si oppongono spesso agli elementi innovativi del paese d'arrivo, veicolando l'identità e il sapere tradizionale alle seconde e terze generazioni (rispettivamente i figli giunti in età adolescenziale nel paese di immigrazione e quelli nati in territorio elvetico).
Al contrario, già nella seconda fase d'emigrazione (1970-1980), si verifica una maggiore apertura nei confronti delle nuove istanze della cultura di accoglienza da parte sia di donne, anche giovani, giunte sole nel cantone e differenti per grado di istruzione e aspettative professionali rispetto a quelle più anziane, sia delle seconde generazioni che ora rifiutano, ora alternano e conciliano il patrimonio tradizionale dei genitori con le nuove proposte della società d'arrivo.
Nell'uno e nell'altro caso gli immigrati italiani del canton Vaud diventano attori dell'incontro tra due cosmologie di credenze e di pratiche rituali differenti: da un lato il sapere tradizionale, che continua a vivere soprattutto tra le donne di prima generazione e, in maniera ambigua, nei figli di seconda generazione, dall'altro una ritualità più laica, legata ad una realtà multiculturale. Ciò permette di valutare gli elementi di continuità o di rifiuto del sapere tradizionale nel processo migratorio.

I modi di pensare e di vivere la morte
tra gli immigrati italiani nel canton Vaud risentono fortemente di questa coesistenza di modelli culturali e di pratiche rituali differenti. Se da un lato l'evento morte va sempre più incontro ad una sorta di autonomizzazione e di spersonalizzazione della sfera individuale, anche attraverso nuove forme di commiato e di sepoltura che rispecchiano il carattere sempre più laico e  globale della società in cui esso è inserito, dall'altro soprattutto i migranti di prima generazione tendono a preservare quelle pratiche rituali tradizionali con le quali la morte continua ad essere percepita come fenomeno intimo e familiare, condiviso spesso dal ristretto gruppo di appartenenza.
Se la famiglia dell'immigrato abita a Losanna, si tende a seppellire lì il corpo del defunto; qualora, invece, la famiglia abbia ancora dei parenti in Italia, il corpo viene più spesso rimpatriato. Oggi, il 70% circa degli anziani esprime la volontà di farsi rimpatriare, mentre i più giovani, che sono nati in Svizzera da genitori italiani, solitamente vengono sepolti qui.
Il nucleo familiare dell'immigrato resta il primo interprete dell'evento "morte", la cui centralità è sempre riservata al corpo del defunto: infatti, il rito funebre rappresenta una caratteristica tipica degli immigrati italiani, tra i quali prevalgono le scelte della cerimonia funebre officiata in Chiesa (spesso nella Missione Cattolica locale) e della inumazione (anche dopo il rimpatrio nel paese di origine), a differenza del costume tipicamente svizzero-protestante che prevede, nella maggior parte dei casi, una semplice omelia commemorativa e, oggi sempre più richiesta, la cremazione.
Come affermano i funzionari delle Pompes Funèbres Officielles di Losanna, gli Italiani primi-migranti sono disposti ad affrontare anche ingenti spese pur di garantire un "funerale completo" o una "bella sepoltura" al proprio defunto. Ciò ha spinto le imprese funebri a creare un vero e proprio "mercato della morte all'italiana" (bare piuttosto costose, che ritraggono scene bibliche o riportano intarsi particolari, immagini del defunto sull'annuncio mortuario, inumazione alla presenza di tutta la famiglia). La peculiarità del sentire e del vivere la morte dell'immigrato italiano si realizza anche nei comportamenti più esteriori (urla, pianti, invocazioni del nome del defunto, baci sul feretro, processione di accompagnamento verso la tumulazione) che contrastano fortemente con il pudore, la riservatezza e l'impersonalità del rituale imposto dalla società elvetica.
«Gli immigrati del Sud piangono molto di più, ma non gridano come ho sentito fare in Italia. Baciano sempre la bara e il momento in cui si commuovono maggiormente è proprio quando si chiude la bara. A questo una famiglia italiana solitamente assiste sempre, a differenza degli Svizzeri i quali, a volte, non restano neppure au moment de l'enterrement» (F. Poletti, responsabile Pompes Funèbres Officielles di Lausanne).
L'evento "morte" diventa, in tal modo, "culturalizzato etnicamente", in quanto segna l'appartenenza identitaria ed individua il vasto apparato rituale che contrassegna quella determinata cultura.
Indossare l'abito nero e abbandonarsi pubblicamente ad estreme e parossistiche manifestazioni di dolore non solo durante la cerimonia funebre, ma anche nei giorni successivi al decesso, era costume radicato in numerose zone del Sud d'Italia, come etnologi e demologi degli anni Cinquanta e Sessanta hanno documentato.
«Nel mio paese la cerimonia è troppo stucchevole perché intervengono troppi uomini e troppe donne. Preferisco, sinceramente, la maniera meno esagerata degli Svizzeri» (Carmine di Ferrandina). Al contrario, qualcuno ha affermato: «Preferisco morire nel mio paese. Qui si muore da cani e mosche» (Vittorio di Palermo). La "maniera" degli Svizzeri è quella che gran parte degli italiani immigrati a Losanna vanno progressivamente adottando «perché sei in un paese che ti ospita e ti adegui alle loro usanze, non vuoi farti riconoscere come italiano, come straniero, diciamo pure, il solito italiano. Qui ti impongono di non piangere: all'ospedale, nella camera mortuaria, in chiesa. Ti devi contenere! Pensa che quando è morto mio suocero, mia suocera si è contenuta davanti alla bara, piangeva piano piano. Appena siamo entrate in macchina, dopo il funerale, ha gridato, ha pianto tanto, si batteva con le mani le gambe e diceva cose che non ho capito bene, ma, voilà, tu compris?, in macchina, quando nessuno di questi [gli svizzeri] la poteva vedere» (Giusy di Agrigento).
Questi costumi sono andati pian piano sparendo non solo nel paese d'origine, ma anche in quello d'arrivo, dove la consuetudine locale ha determinato il cambiamento dell'apparato tradizionale dell'immigrato. Accanto alla scomparsa dell'abito nero in segno di lutto, prevale il contenimento e l'autocontrollo sulle manifestazioni esteriori di dolore, "alla maniera svizzera".
«Al mio paese gli uomini portavano una striscia nera sul braccio e sul petto, le donne si vestivano di nero anche per tre, quattro mesi. Qui non esiste niente di questo, ma devo dire che anche nel mio paese sta scomparendo. Cioè, gli uomini si vestono normali e le donne, solitamente, con abito scuro, ma niente di più» (Tindaro di Messina).
L'immigrato italiano, anche di prima generazione, dice di non voler farsi riconoscere come tale, ancorato a tradizioni ataviche, che possono ostacolare l'integrazione nella società di accoglienza.
«Al mio paese la fanno lunga, qui tagliano corto. In Sardegna chiudono tutti i negozi, tutto il paese partecipa alla morte di una persona. Per un mese, ancora adesso, la vedova non può uscire da casa. Qui le donne non portano più il lutto. Non ho mai visto persone piangere» (Gardino di Sassari). Si rimarca la compostezza e il pudore con cui anche gli italiani, soprattutto le donne, si accostano al rito funebre: «Ci si abitua alla riservatezza e al pudore del paese che ti ospita. Solo le donne piangono, mai gli uomini. Qui posso dire che neanche le donne piangono più, tranne, però, quando muore un giovane. Allora si che è straziante ed è uguale all'Italia» (Clelia di Teano).
La perdita di questi segni esteriori si manifesta come una messa in crisi dell'appartenenza ad una determinata provenienza e cultura, quasi rifiutata per l'accettazione del modello locale dominante, che segna il cambiamento anche dei tempi e degli spazi del "vivere la morte". A Losanna, infatti, la pratica rituale che precede la cerimonia funebre non avviene mai in casa del defunto, ma si svolge nella chambre mortuaire dell'ospedale (qualora la persona muoia lì) o nelle chapelles, allestite appositamente all'interno dei cimiteri. Ciò non permette quella cura diretta del familiare verso il defunto, né il rispetto di quella "sacra" intimità che segna gli ultimi istanti dei vivi con il corpo morto. Salvo rare eccezioni, infatti, la salma non può essere portata a casa, né accudita e vestita dai parenti, compito che spetta ai funzionari delle pompe funebri, assoluti gestori dell'evento.
«È una fortuna se il morto muore in casa, si dice che ha avuto una fine più serena. E sta lì sul letto. Qui non esiste assolutamente la veglia di notte. Al mio paese, la gente entra e esce, e tu non puoi andare neppure a dormire. Le donne stanno lì, vicino al morto, a pregare e a dire il rosario. I vicini si preoccupano di portare qualcosa da mangiare, fanno il caffè e offrono qualche biscotto a tutte le persone che sono venute a trovare la famiglia del morto e il morto. I parenti del morto non fanno niente dentro casa loro, ma sono sempre aiutati. Ricordo anche che, quando è morto mio padre, si sono coperti con lenzuola tutti gli specchi e si sono tolti tutti gli oggetti che tagliano, tipo forbici, coltelli, ma non so perché» (Clelia di Teano, gestore della Circolo Italiano di Losanna).
«È una fortuna se ti muore in casa. Altrimenti non te lo puoi neanche riprendere dall'ospedale. Qui la morte è vista come paurosa, mette paura insomma. Mentre in Italia la morte è qualcosa di naturale, va vissuta come un evento che fa parte della vita» (Paola di Trento).
La morte, vissuta in ospedale o nelle strutture pubbliche, appare "mauvaise", cattiva, impersonale: l'annuncio della morte avviene tramite la pubblicazione della notizia sui giornali locali in cui, lì dove il cittadino svizzero inserisce semplicemente il nome e il cognome del defunto con le indicazioni della cerimonia funebre, l'immigrato italiano aggiunge sovente una fotografia con frasi di commiato o con stralci di poesie.
«Alcuni, cioè la maggior parte degli italiani, decidono di mettere una croce e la foto stampata. Gli annunci sul giornale messi dagli italiani sono più belli di quelli degli svizzeri. Questo costa molti soldi, ma loro ci tengono. L'annuncio, solitamente pubblicato su "24 heures", viene poi rimesso sul bollettino della parrocchia, soprattutto se è la missione cattolica di Losanna. Uno legge l'annuncio e poi avverte tous les autres, compris? Non ci sono manifesti in giro per la città. Queste sono le formule che gli italiani usano di più» (F. Poletti, responsabile Pompes Funèbres Officielles di Lausanne).
Stessa cosa accade per l'inumazione: nel primo caso si preferiscono tombe sobrie e aniconiche, poste a contatto con la terra; nel secondo, pietre sepolcrali decorate anche con oggetti che appartennero al defunto e con fotografie (non c'è tomba di un italiano che non ne abbia). L'esaltazione della corporeità e, soprattutto, della centralità del volto nella ritualità funebre rappresenta una caratteristica delle pratiche rituali degli immigrati italiani che continua a persistere nonostante la ricezione di forti cambiamenti cultuali e rituali.
Mancano, inoltre, occasioni per visite in casa della famiglia del defunto, soprattutto da parte di quei connazionali che erano abituati a partecipare collettivamente al decesso di un conoscente. In tal modo viene meno quel senso di aggregazione e di partecipazione comunitaria che caratterizza, tuttora, l'evento funebre in alcune regioni soprattutto del Sud d'Italia. La concezione hertziana della collettività della morte, che ne determina il carattere sociale, cede il posto alla solitudine di un lutto privato che, se da un lato crea un senso di sradicamento dal tessuto d'origine, dall'altro, per alcuni, si rivela come un salvifico allontanamento da una tradizione imposta, eccessivamente vincolante nei segni esteriori e nelle pratiche rituali (non pochi immigrati affermano di preferire la sobrietà e la moderazione delle cerimonie svizzere ad una ostentazione di dolore eccessivo e talora artificiale).
Una delle consuetudini protestanti oggi accolte anche dagli immigrati italiani, che contribuisce a preservare almeno parzialmente il carattere collettivo dell'evento morte è la colation: una sorta di ricevimento, "un verre d'amitié" spesso accompagnato da musica, offerto dalla famiglia del defunto ai partecipanti, come a ricordare il consòlo e il banchetto propri del sapere funebre tradizionale. Se alcuni rifiutano di perseguire questa abitudine (considerata una irrispettosa festa nei confronti del parente deceduto) o di scegliere forme di sepoltura diverse dalla tumulazione e dalla inumazione, altri, più propensi al cambiamento, vedono nella colation la possibilità di prolungare il momento di condivisione anche con i parenti giunti dall'Italia per l'occasione. Costoro hanno iniziato a preferire la cremazione alla inumazione, per ridurre le spese di sepoltura e per poter conservare con sé le spoglie del proprio defunto (non mancano coloro che custodiscono le ceneri dei propri figli, spesso morti giovani, all'interno di urne poste nel salone della propria abitazione o in giardino).

Il sentire e il vivere la morte vengono rielaborati alla luce delle pratiche cultuali proprie della società d'accoglienza: esse diventano mezzi di integrazione e di assimilazione dell'immigrato italiano nel vasto apparato rituale del "morire alla maniera svizzera".
Il comportamento discreto da tenere pubblicamente durante la cerimonia del commiato e il carattere minimalista ed essenziale della pratica protestante-calvinista si traducono anche nel rispetto di quelle prassi organizzative che vengono demandate totalmente ad un maître de cérimonie. Questi, il giorno della cerimonia, dopo aver preparato la salma e dopo aver allestito la camera ardente, dirige il corteo degli astanti, ricorda l'appuntamento nei diversi luoghi in cui il rito sarà svolto e le volontà espresse dai familiari riguardo agli "onori" (le condoglianze). «Significa che tutti quelli che hanno partecipato al funerale devono passare davanti ai parenti più stretti del morto, che sono tutti davanti alla bara o al primo banco. Questi a volte vogliono l'abbraccio o la stretta di mano, altre volte niente. Quindi il maître de cérimonie, quello che organizza tutto, dice prima del rito se la famiglia non vuole le condoglianze o se le vuole; forse lo fanno per vedere chi c'è» (Roberto di Trieste).
Sebbene soprattutto i primi-migranti tentino di mantenere le proprie tradizioni intatte, in una sorta di rielaborazione culturale e sociale adattabile anche al paese d'accoglienza che rifiuta l'eccessiva ibridazione con le pratiche imposte dalla tradizione, gli immigrati di seconda e, ancor di più, di terza generazione attuano un percorso di integrazione e di assimilazione alle pratiche della società elvetica, quasi rifiutando o oltrepassando la tradizione di originaria appartenenza. Viene così a crearsi una forma di sincretismo culturale e cultuale tra l'appartenenza ad un sapere tradizionale (di pratiche che, spesso, non esistono più nel paese di provenienza) e l'apertura agli usi del paese d'arrivo (la crescente richiesta della cremazione su altre forme di sepoltura ne è un esempio).
«Mi sento Svizzero à tous les effets, perché devo fare come i miei nonni o come chi non è di qua? Poi la cremazione costa meno, ingombra meno, insomma... conviene, n'est-pas? Forse i miei non sono tanto d'accordo, ma io preferirei, come miei altri amici, così...» (Massimo, figlio di immigrati siciliani).
Come accade nella società italiana attuale, per la presenza di numerose comunità di immigrati provenienti soprattutto dall'Est Europa e dall'Africa del nord, anche il vivere e il pensare la morte diventano espressioni dell'identità del sé e del gruppo di appartenenza, messa in crisi, mutata, rielaborata o re-inventata nella dinamica migratoria a contatto con sistemi culturali e performativi differenti. Il commiato funebre dell'immigrato italiano a Losanna diventa l'espressione di pratiche sincretiche in cui si realizza l'incontro tra il sapere tradizionale del paese d'origine e le nuove istanze di quello d'arrivo, incontro che è poi testimonianza di un possibile, talora anche inconsapevole, percorso verso l'integrazione.
 
Annamaria Fantauzzi

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