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Di Giovanni Pascoli

La mia sera

È il mese di ottobre del 1900: Giovanni Pascoli scrive “La mia sera” (“un innetto molto melanconico”, lo definisce in una lettera ad un amico). La poesia entrerà a far parte nel 1903 dei “Canti di Castelvecchio”.
I lampi e gli scoppi di una tempesta che sembrava non voler mai finire hanno segnato tutta la giornata; ma le stelle prendono il loro posto nella pace della sera e il dolce rumore dello scorrere di un ruscello, ingrossato dalle piogge diurne, attraversa l’aria fresca mentre è ormai scomparso, di tutta quell’aspra bufera, il “cupo tumulto”, il frastuono spaventoso. La paura, l’inquietudine, l’oscurità tempestosa del giorno si convertono sul far della sera in tranquilla serenità e in luminosa bellezza: i “cirri di porpora e d’oro” e la nube rosa nella luce del tramonto, quella nube che era stata “la più nera” durante la giornata.
La garrula allegria della “cena” serale in un nido di rondini è l’emblema di questa serenità ritrovata. Ma proprio qui, nella quarta strofa, si inserisce un elemento nuovo, l’io del poeta che svela – si può dire – l’altra faccia del testo, e che spiega perché Pascoli abbia definito, come abbiamo visto, “molto melanconica” una poesia che parla di felicità ritrovata.
I “nidi”, cioè gli uccellini che non sanno ancora volare, hanno patito la fame durante il giorno, non hanno avuto la loro parte intera. “Né io” (nemmeno io), dice Pascoli. È dunque anche della sua vita che si parla; la sera non è solo la parte finale della giornata, è la fase finale della vita di un uomo che fu piena di dolore, di paura, di traumi (ecco cosa significavano la tempesta, gli scoppi, il tumulto), di privazioni.
Cos’è allora questa serenità che alla fine si ritrova? Lo si intuisce nell’ultima strofa. Le campane invitano con insistenza (con inesorabile, fatale insistenza) al sonno; “voci di tenebra azzurra” le chiama Pascoli, e tenebra non è una parola poi così serena, allusiva com’è a un’idea di oscurità abissale, si può ben dire mortale. Ecco dunque insinuarsi nella mente del lettore che se la sera è la vecchiaia, il sonno, la quiete cui essa ci invita altro non è se non la morte. Come conferma il poeta negli ultimi versi volgendosi di colpo (e genialmente) a un ricordo d’infanzia: quando, a sera, il canto cullante della mamma sembrava accompagnarlo dolcemente verso il non essere, verso il nulla... .
 
Franco Bergamasco


La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
 
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
 
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
 
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io ... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
 
Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.

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