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(Boccaccio, Decameron, I, 1)

La sepoltura di Ser Ciappelletto: un bel problema

"Ser Cepparello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto". Queste le parole della rubrica con cui Giovanni Boccaccio (1313 - 1375) introduce la prima delle cento novelle del suo Decameron.
Il racconto è fra i più noti, ma è sempre un piacere rileggere la descrizione del notaio di Prato culminante nell'iperbolico elenco dei suoi peccati: falsario e spergiuro (un notaio!), seminatore di discordia, bestemmiatore, iracondo, "de le femine vago come sono i cani de' bastoni" (e di conseguenza non certo casto ma sodomita), goloso, bevitore, giocatore e baro, violento, all'occasione omicida. E ancora più divertente, nell'episodio culminante del racconto, vedere l'impagabile finta compunzione con cui lo sciagurato approfitta della dabbenaggine del santo frate, anzitutto dichiarandosi vergine, poi confessando con aria contrita "peccati" di cui questo è un esempio: uso a digiunare (sostiene lui) oltre che nelle occasioni prescritte anche tutte le settimane stando tre giorni a pane ed acqua, si definisce peccatore di gola recidivo per aver bevuto l'acqua con troppo gusto, specie quando era affaticato, e per aver viziosamente desiderato certe "insalatuzze d'erbucce".
È così che ser Ciappelletto riesce a farsi passare per santo, "e la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella; e a mano a mano il dì seguente cominciarono le genti a andare e a accender lumi"; ma da parte del personaggio (e dell'autore!) non si tratta solo di una allegra e un po' blasfema presa in giro del più o meno autentico slancio di devozione con cui gaudenti e/o malfattori ritengono di poter aggiustare i conti con la giustizia divina in extremis. Un problema per Ciappelletto in punto di morte c'è veramente, e non è naturalmente il destino della sua anima, ma appunto la sua propria sepoltura; e questo è il punto che genera il meccanismo narrativo dell'intera novella. Facciamo dunque un passo indietro.
Non ci troviamo in Italia, ma in Borgogna, dove il notaio di Prato si trova, su incarico di un ricco mercante italiano, a riscuotere crediti presso i malfidati e ostili borgognoni. Egli alloggia presso due usurai fiorentini, ed è appunto a casa loro che, non più giovane e malvissuto, si ammala e viene ben presto in punto di morte. Qui nasce - non tanto per lui, a dire il vero, quanto per i due fiorentini - il problema della sua sepoltura, che possiamo presentare in questi termini: mandarlo a morire fuori casa - riflettono gli usurai - non possiamo; lui di sicuro rifiuterà i sacramenti e, "morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a' fossi a guisa d'un cane"; i borgognoni, che già considerano così male il nostro mestiere, grideranno allo scandalo per "questi lombardi [= Italiani] cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere", assaliranno le nostre case derubandoci e forse ammazzandoci: "di che noi in ogni guisa stiam male se costui muore".
Di qui l'idea di Ciappelletto della falsa confessione, con cui cava brillantemente d'impaccio i suoi padroni di casa, nella certezza che, dopo "tante ingiurie fatte a Domenedio" in vita, "per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà".
 
Franco Bergamasco


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