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L'improvvisa scomparsa di Lucio Dalla

E se non ci sarà più gente come me, voglio morire in Piazza Grande

Non è facile trovare parole per ricordare un piccolo uomo immenso che ha influenzato la mia modesta chitarra e ispirato l’abitudine all’ascolto della musica. Non è facile trovare parole per rendere tributo ad un artista unico nel suo unico genere: Lucio Dalla, l’incarnazione di tutto ciò che l’armonia, il ritmo, la poesia, l’arte, la musica, la gestualità e la genialità creativa potevano invocare di trovare condensate in un solo essere umano.
È difficile descrivere adesso, con un groppo in gola, il sublime menestrello pittore di versi e di frasi che, con pungente ironia, ha cantato ogni sfumatura del vivere adoperando la potente voce con giocosa, spietata, imprevedibile, arruffata maestria. Ricordare Dalla è un susseguirsi di maschere, di canzoni e di suoni. Quarant’anni che tornano alla mente e che, da lì, tinteggiano con leggerezza e con profondità luoghi, volti e momenti apparentemente insoliti: canti senza limiti di terra e di tempo. Non solo musica, ma anima e vitalità di un talento infinito che ci ha regalato di che pensare in ogni quando e in ogni dove, poetando miti e leggende, narrando favole senza raggiri in filastrocche pop, liriche e ballate. Storie dette anche canzoni, recipienti del nostro vivere armonizzato come toni di un caleidoscopio.
Lucio Dalla. Inesauribile progetto musicale, inno alla fantasia, asteroide dei primi anni ‘70 precipitato sul pianeta Canto assieme ad altri pochi mostri alieni con uno scopo comune: sovvertire l’uso delle note, potare bacucche melodie, redimere il sorriso, abbellire la mente e arricchire il ritmo di noi teen-ager e, gradatamente, ragazzi sempre più maturi. Missione compiuta da allora fino ad oggi con un messaggio sonoro mai ripetitivo e fine a se stesso, sempre un gradino più profondo, perché “profondo è il mare”. Lucio ha cantato il lupo e la battaglia, il cielo e l’inferno, il lavoro, la fabbrica, il male della guerra e i soprusi del potere. Ha cantato Garibaldi e l’amore, Cesenatico e Dio, l’Alfa rossa e Nuvolari, con medesima sagacia e con bonaria parodia. Sopraffino, seppur istintivo compositore, buffone di se stesso e giocoliere, ha cantato sempre al di fuori del coro con l’inarrivabile perspicacia che solo pochi cantautori hanno, senza stancare mai, senza il bisogno di farsi chiamare “maestro”.
Bologna e Itaca, principesse e marinai, capitani coraggiosi e paure, Caruso e l’amico, i sacchi di sabbia alla finestra. Lucio Dalla e quattro cani per strada, Lucio Dalla Gesù bambino, Lucio Dalla e i preti che si sposeranno, “ma solo a una certa età”. Indelebili verbi e suoni gutturali, smorfie e borbottii che si mutano in strumento armonico. Cantore, comico, mimo e giocoliere sul palco: berretti, pelliccia, bianco cappello, uomo e clarinetto, occhiali tondi ed occhi vispi, barba incolta, un insieme esplosivo, pittoresco e arzillo. A riguardarlo oggi, pare immortale e quasi bello, musico senza limiti, inventato regista di se stesso. Non lo si può definire soltanto un cantante, lo si può ringraziare e basta. Ha insegnato qualcosa a tutti. A noi giovani, sulla panchina di sera e una chitarra tra le dita, ha insegnato belle frasi per le nostre voci e qualche impegnativo arpeggio, ha insegnato che tutto si può dire cantando, a volte accompagnati da un elaborato arrangiamento, altre volte improvvisando. Ha insegnato che si può diventare grandi senza rinnegare se stessi, rimanendo umili e gentili, sempre disponibili, facendosi amare da tutti senza atteggiarsi, senza sforzo né sfarzo.
Sembra impossibile che un uomo così vivo e utile sia volato via senza chiedere permesso. Vero è che ci ha lasciato immagini di sé, colonne sonore, forse mille canzoni, ma c’era ancora posto per qualcosa in più. Erano ancora tanti, troppi, le gioie, le debolezze e i contrasti del vivere che reclamavano spazio per essere sviscerati dalla potenza di un’armonia descrittiva unica e sua. Un canto a fumetti disegnato da una metrica istintiva e ben poco schematica che, forse mai una volta sola, ha fatto rima con amore e cuore. Quanto deve essere stato bello però, riuscire a vivere così, cantando angoli di mondi fantastici e quadri surreali, rendendoli materici senza timore di smentita. Vivere consapevole di essere prima o poi destinato a rimanere eterno, vivere in un modo gentile, lasciando ai posteri un patrimonio che, definirlo musicale, è un vezzeggiativo. Un patrimonio da scoprire, perché ora è nostro compito uscire dal ritornello e inoltrarci nella genialità, in una enciclopedia di metafore che si intrecciano con ricordi, con allusioni e con velate critiche persino troppo eleganti. Storie di storie condivise al ritmo del jazz con quelli che, d’ora in poi, non possono più permettersi di essere solo ascoltatori, ma sono obbligati a diventare seguaci, discepoli e fedeli apprendisti di giochi e di pensieri.
È normale che oggi lo piangano tutti: concittadini, gente comune e fortunati cantanti. Sembra impossibile che un uomo così raro e vitale per questo nostro distratto, sempre più arido, dozzinale e uniforme mondo, civile e scintillante, ma forse poco artistico, se ne sia andato lasciando un grande palco vuoto. Lo ha fatto certamente controvoglia, all’inizio di una nuova tournée, in Svizzera. Così hanno deciso il fato o il tempo, ma, se avesse potuto scegliere, sono certo che avrebbe preferito restituire l’anima a Dio altrove: nella sua Piazza Grande.
Vai Lucio e, se puoi, scrivi agli amici da lassù!
 
Carlo Mariano Sartoris


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