- n. 1 - Gennaio 2012
- Recensioni
Il rock è morto?
Il rock è morto. Di nuovo, si potrebbe pensare. No, questa volta pare sia proprio vero. Almeno è quanto emerge dagli articoli di Paolo Giordano su “Il Giornale” e di Gino Castaldo su“La Rep ubblica”. A risvegliare l’annosa questione è stata la top 100 di Billboard USA, l’autorevole rivista che ogni anno stila la classifica dei singoli più venduti negli States. Era stato Giordano a commentare per primo i risultati del 2011, evidenziando come sia ormai il pop a farla da padrone, tanto da dover scendere fino al ventiduesimo posto per trovare il primo gruppo rock della classifica: gli U2.
I gruppi rock non registrano certo i numeri degli anni precedenti e soprattutto sono sempre gli stessi: pochissime le novità, resistono invece gli intramontabili come i Beatles. Il pubblico preferisce comprare la sicurezza piuttosto che scommettere sulle novità. Forse perché nessuna di queste è incoraggiante? Forse.
Se Giordano si era limitato a constatare la disfatta del rock nella classifica 2011, Castaldo nel suo articolo apparso il giorno dell’Epifania ha emesso la sentenza, intitolando così il pezzo: “Il grande silenzio del rock – Questa volta è finita davvero”. Il giornalista pare esserne così sicuro non solo a causa della classifica americana, ma per un motivo ben più grave: il rock ha completamente perso la sua funzione sociale. Nell’ultimo anno i giovani di tutto il mondo hanno protestato contro la disastrosa situazione economica e sociale in Europa e negli Stati Uniti, hanno lanciato rivoluzioni storiche in Nord Africa e in nessuno di questi casi il rock ha accompagnato la protesta. Castaldo lamenta la mancanza di una colonna sonora che racconti di questi giovani e delle loro ragioni come di un fatto più unico che raro nella storia moderna. Insomma le giovani generazioni sarebbero orfane del rock e ciò sarebbe dovuto ad un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato che ha causato il ritorno a una era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento. A mancare è il rinnovamento. Non perché non ci siano nuovi gruppi rock capaci di raggiungere buoni livelli qualitativi, ma perché non sono capaci di creare emozioni in grado di aggregare forze collettive, soprattutto in contesti come quelli dei movimenti degli Indignados e di Occupy Wall Street.
Dobbiamo dunque dire addio al mito del rock, alla musica, ai costumi e alle sensazioni che hanno incendiato generazioni di giovani e non solo per oltre cinquant’anni? Forse. O forse no. All’uscita dell’articolo che ha riportato il tema in prima pagina, il popolo del web ha reagito in maniera determinata, favorevoli o contrari alla posizione del critico. Per la verità, sembra maggiore il numero degli indignati anche solo dall’idea che il rock sia morto e che a sostegno di tale tesi ci sia una classifica, specchio dell’andamento dell’odiato mercato.
Navigando tra i commenti, dai più deliranti ai più circostanziati, ci siamo imbattuti in chi scrive “È vero, non c’è più una colonna sonora delle proteste. Ma chi l’ha detto che questo sia un male? Chi l’ha detto che ci debba essere una sola musica a sottolineare i critici momenti sociali di oggi?”. Interessante. Proviamo a riflettere: il rock è nato oltre cinquanta anni fa in un determinato contesto storico e sociale. Il genere si è evoluto per la qualità della musica proposta e per aver saputo rappresentare i cambiamenti della società: ha raccontato per anni gli umori dei giovani di diverse generazioni, riuscendo a catalizzare intorno ad alcuni artisti o band l’attenzione di migliaia di persone in tutto il mondo. Questi artisti hanno incarnato i sogni, le voglie e la rabbia dei giovani almeno fino alla metà degli anni novanta. Da allora qualcosa è cambiato. Forse oggi il rock non è più l’unica voce, ma una delle tante. Nessuna nota di dolore in questo: dopo l’avvento di Internet e della rete, i modelli culturali di riferimento sono stati completamente sconvolti, passando da un ordine verticale ad uno orizzontale. La maggioranza della popolazione mondiale oggi è in grado di accedere in qualsiasi momento a tutte le informazioni di cui ha bisogno e che più le interessano. Stilare una classifica sui gusti musicali nel 2011 senza considerare le vendite su i-Tunes o le visualizzazioni dei video su You-Tube significa non avere adeguati strumenti di misurazione. Insomma, non si può pensare che i metodi di fruizione della musica non siano cambiati quando lo sono tutti i mezzi di comunicazione e le tecnologie disponibili.
È difficile dunque riuscire a comprendere se davvero il rock sia in un momento di staticità evolutiva oppure se invece sia ancora vivo e vegeto. Quello che è certo è che si deve passare attraverso il vaglio della rete per capire cosa accadrà. Difficile, per non dire impossibile, che tornino i tempi delle folle oceaniche per i Beatles e i Rolling Stones, ma questo non significa che il rock non si stia evolvendo nella direzione dettata dai nuovi modelli culturali, diffondendosi e trasformandosi in nuove forme.
Lo stesso Castaldo, chiudendo il proprio articolo, fa riferimento ai
social network, sostenendo che
oggi sostituiscono le modalità di condivisione che una volta erano appannaggio della musica. Il ruolo determinante di tali strumenti nelle proteste recenti, e in generale nella vita di tutti i giorni, è indubbio. Tuttavia non è così automatico lo spostamento di valore tra i social network e la musica: sono molti i fenomeni che hanno beneficiato di questi nuovi strumenti e che dal più completo anonimato sono arrivati ad avere migliaia di fan. Forse è da qui che si deve ripartire. Forse il rock non è ancora morto. Di nuovo.
Sara Sacco