Rotastyle

Rivitalizzazione del linguaggio della rovina

L’intera architettura di questa proposta progettuale intende apparire come uno spazio provvisorio e precario. I tubi che sporgono dal soffitto e i materiali grezzi utilizzati costituiscono un richiamo costante a forme di edifici feriali e profani: architettura di vecchie attività manifatturiere, architettura di ruggine o di attività industriali che si logorano visibilmente nell’atto stesso di funzionare mentre producono. È nell’esasperazione con cui si riprende l’estetica di una architettura funzionale che si vuole proporre una interpretazione della morte nell’età post-industriale. Si tratta di una rivitalizzazione del mito della rovina traslato dal romanticismo all’età, più prossima, della macchina.
Presupposto al progetto è la convinzione che forme note e riconoscibili di una architettura paleo-industriale sappiano codificare valori simbolici comprensibili alle presenti generazioni, cosa che non riescono a fare elementi iconici sparsi della presente età informatica che, pur con risultati straordinari sulla società contemporanea, si è affacciata e radicata nella storia dell’umanità senza ancora produrre una estetica delineata e unitaria, ma piuttosto episodica ed estemporanea. Così, per celebrare la memoria dei viventi, non stupisce che i risultati dei progetti più maturi di un corso di laurea universitario propongano una interpretazione delle architetture industriali del più recente passato.
In più, se questo linguaggio è stato ispirazione, all’inizio del secolo XX, di un importante rinnovamento dell’architettura delle chiese cristiane, non ci pare né originale né provocatorio considerarlo oggi generatore di una architettura per liturgie laiche del commiato. Il paradosso, che si nasconde oltre l’aspetto “produttivo” degli spazi che recinge la presente proposta, è quello che rende intrinseco all’esasperata freddezza scientifica degli ambiti di ispirazione di questa articolazione spaziale un nuovo accento lirico, l’improvviso apparire di verticalità inaspettate, come una ierofania strutturata in una dimensione esistenziale quotidiana.
Si introduce così un capovolgimento radicale rispetto alle direzioni operative che hanno dominato la gran parte della progettazione mortuaria di ambito cimiteriale e ospedaliero del secolo scorso. Mentre in quel caso gli ultimi retaggi di un linguaggio e di una concezione di matrice positivista inducevano ad una sobrietà fredda e meccanica degli spazi funerari, in questo progetto sono i simboli decadenti delle “magnifiche sorti e progressive” che si fanno veicolo di istanze poetiche e spirituali, aperte alla comprensione di tutti ed impastate del linguaggio delle periferie industriali a recingere spazi organizzati secondo le eloquenti forme archetipiche della più radicata e condivisa psicologia della percezione.

 
Luigi Bartolomei


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