Tempi quasi persi nella memoria, immagini sbiadite del 1969, di quel concerto a Woodstock che, pochi lo sanno, fu una invenzione della CIA per dare l’immagine di un paese libero anche di cantare il proprio dissenso senza finire in Siberia. Fu una buona idea non solo per i 400.000 giovani figli dei fiori accampati sul prato, ma anche per l’eredità musicale consegnata ai posteri e ancor viva oggi. Sul palco si diedero il cambio artisti di un rock e di un blues che segnarono la storia della musica contemporanea, di una elettronica bambina nata già adulta, metallica ricerca di suoni nuovi e di sonorità profonde. Tra i tanti volti resi immortali da quell’avvenimento, il giovane
Joe Cocker si presentò con un indimenticabile
“Delta Lady”, di Leon Russel, interpretata da una voce roca e graffiante, degna della più classica ugola nera.
Arrivato al successo con le sue magistrali cover dei Beatles, Joe appartiene a quel ristretto nucleo di “animali da palcoscenico” capaci di comunicare musicalità con ogni minimo gesto del corpo, a quei soggetti con una “musica dentro” in grado di penetrare tra i pori e di sedurre la mente, a quelle inconfondibili voci “rhythm and blues” che qualche dio della musica ha voluto regalare al mondo. Un Dio geloso o intransigente che lo ha richiamato a sé in questo grigio inverno dell’anno 2014, dopo avergli dedicato un percorso di vita segnato dalla droga e dall’alcol, con alti e bassi dai quali ha saputo risorgere consegnandoci sempre sciccheria per le orecchie ed emozioni anche per chi non coltiva un’anima blues. Impossibile non menzionare “You can leave your hat on”, colonna sonora di uno dei più intriganti spogliarelli della storia del cinema, ma l’eredità sonora lasciataci in dono da Cocker è infinita e di altissima qualità: sempre nuova per chi l’apprezza già, imperdibile per chi la conosce meno e dovrebbe colmare la lacuna.