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Non si può negare la morte

Come spiegare il significato della morte ai bambini? Come far sì che essa entri il più naturalmente possibile nella loro vita senza creare turbamenti? Sono le domande più frequenti delle mamme e sono gli stessi quesiti che mi sono posta quando ero a tu per tu con Leo, un bambino autistico di dieci anni del tutto ignaro dell’esistenza della morte. Il nostro incontro mi ha condotta a riflettere su molti aspetti della comunicazione fino a quel momento sottovalutati: per questa ragione ho dovuto studiare, per entrare in contatto con lui, qualcosa di speciale.
La questione del fine vita e la paura dell’ignoto interessa da sempre i filosofi. Epicuro ne dà la spiegazione più razionale e lontana dal dolore e dalla paura: “Quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più”. Questa sua famosa citazione tratta dalla “Lettera a Meneceo” può apparire ovvia mentre è di una verità sconcertante: non si può avere paura di ciò di cui non abbiamo alcuna coscienza, di qualcosa con la quale non potremo mai coesistere. La paura del “non esserci più” si fonda sul timore della punizione che dopo morti potrebbe toccarci e sulla preoccupazione che morendo venga a scomparire la felicità a causa della sofferenza. Leggendo Epicuro impariamo che il saggio non teme la morte, né reputa un male il non vivere: egli ha solo cattiva considerazione per il vivere male. Accompagnati da queste riflessioni riusciremo più facilmente ad entrare in un’ottica naturalistica che sappia cogliere l’esistenza con una visione d’insieme e meno legata alla propria individualità, così da predisporci con maggiore serenità a trattare la questione “dell’ultimo passo” senza trasmettere ansia ai bambini.
Sono riuscita ad elaborare un procedimento dopo aver conversato con la mamma di Leo; parlando di un episodio di cronaca riguardante la morte di una persona, la signora afferma: “Io ho una gran paura della morte e mio figlio non sa cosa sia, si figuri che quando è morto mio zio gli abbiamo detto che è andato in America”; e aggiunge: “In casa mia non si deve parlarne, non sono mai riuscita ad affrontare l’argomento, credo che l’unico morto che Leo abbia visto è il pollo del supermercato”. La morte, nel suo contrapporsi alla vita, scandisce le vicende umane, è parte dell’esistenza e non la si può negare. Chi elimina questo stato del mondo nega una parte della realtà, vive in un mondo parziale, limita il rapporto con gli altri ed il proprio diritto alla felicità: chi nega non può essere felice. Non possiamo dimenticare che il diritto inalienabile alla felicità è nella costituzione americana e ancor prima nell’ideale di buona convivenza umana di Aristotele. Il filosofo greco è convinto che si possa raggiungere una vita appagante solo se le circostanze sono favorevoli e che il grado di felicità debba essere valutato nell’arco dell’intera vita. Possiamo dedurre che un buon rapporto con la morte dia un contributo decisivo al compimento di una esistenza felice: non posso essere felice se parte del mio tempo è disturbato dalla paura della fine.
I bambini non percepiscono la morte come noi adulti e per abituarli a questo stato di cose è sufficiente osservare la natura e il suo ciclo; le lenticchie che Leo ha seminato hanno prodotto delle belle piantine verdi a cui ogni giorno veniva offerta acqua fresca e luce del sole. Le abbiamo fatte seccare interrompendo l’irrigazione e oscurando l’ambiente. Ecco la prova naturale a cui far riferimento per iniziare a familiarizzare con la morte. Con il nostro esperimento abbiamo decretato la fine delle piantine mentre nella realtà quotidiana morire è più un fatto fuori dal nostro potere, ma con un ragazzino autistico è molto complicato ragionare sull’astratto.
Uscendo dal caso di Leo, con i bambini è comunque auspicabile un approccio morbido: “Se stabilisco io la morte, mostro di non subire l’evento e non spengo violentemente l’immaginazione infantile ricca di speranza e di sogno”. Solo in un secondo momento dobbiamo insegnare che noi esseri umani facciamo parte di una struttura più grande dove nascita, vita e morte sono comuni a tutti i componenti del sistema-mondo. In questo modo così cresceranno con una apertura mentale idonea ad osservare un importante stato del reale come la morte; lo faranno consapevoli che morire è un processo naturale comune ad ogni forma di vita. Nulla si può contro l’ineluttabile destino e, se si riesce a comprenderlo presto, il nostro rapporto con la fine diventerà meno complicato. Siamo cresciuti con i cartoni animati dove i personaggi sono immortali: basti pensare a Willy il Coyote e a tutte le tremende vicissitudini che contraddistinguono le sue avventure. Willy riesce a salvarsi sempre, anche quando gli cade in testa un enorme masso, quando gli scoppia la dinamite in mano o quando viene investito da un treno in corsa. Bene, questo tipo di cinema ha rafforzato il convincimento di onnipotenza infantile: “Anche se precipiti, non ti succede nulla” è il messaggio che giunge ai piccoli telespettatori. Qualche morto avrebbe invece giovato alla presa di coscienza e se proprio non si voleva porre fine alla vita di un personaggio sarebbe stato utile, almeno ogni tanto, mandarlo all’ospedale o in stato di coma.
 
Maria Giovanna Farina
www.mariagiovannafarina.it

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