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Pulvis et umbra sumus

"Siamo polvere e ombra"
Orazio, Carmina IV 7

"Il più agghiacciante dei mali, la morte, non è nulla per noi perché, quando ci siamo noi, non c'è la morte e quando invece c'è la morte, non ci siamo più noi". Così recita una famosa sentenza del filosofo greco Epicuro, la cui scuola tanta influenza ebbe su importanti settori della classe dirigente ed intellettuale romana a partire dal I secolo avanti Cristo. Il più grande poeta lirico latino, Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), si dichiarava, sia pure a volte un po' scherzosamente, epicureo.
Certo non seguì in modo così rigoroso quella disciplina dell'equilibrio dei sentimenti e dei desideri che doveva sconfiggere il sommo dei dolori, la paura: la "nera compagna", il pensiero della morte, non si allontanò mai molto da lui. "Non sei avaro: va bene, ma che importa? Gli altri vizi sono fuggiti con questo? Il tuo petto è libero da vana ambizione? È forse libero dalla paura della morte e dall'ira?" riflette il poeta, consapevole del fatto che non sarà in grado di congedarsi dal convito dell'esistenza serenamente "come un commensale sazio". L'opera poetica testimonia fedelmente questo aspetto della psicologia oraziana, nell'insistenza con la quale l'idea della morte, ultima "linea rerum" ("l'ultimo orizzonte delle cose"), si insinua nel cuore stesso di due delle tematiche più tipiche del poeta, l'amore e la giovinezza.
L'amore come lo concepisce Orazio non è qualcosa di stabile e di duraturo: deve essere vissuto giorno per giorno senza pensare troppo al domani, come suggerisce la celebre espressione "carpe diem" ("Sii saggia, filtra il vino e accorcia le speranze, poiché la vita è breve. Mentre parliamo, il tempo avido sarà fuggito: cogli l'attimo, e del domani fidati il meno possibile"); ma questa concezione si profila appunto, come si vede, sullo sfondo di una idea di costitutiva precarietà dell'esistenza, i cui momenti più belli svaniscono nel nulla: "Rendimi il petto forte, i capelli neri sulla fronte stretta, rendimi il dolce parlare, rendimi il sorriso amabile e il piangere tra il vino, la fuga di Cinara piena di voglia".
È vero che la fine dell'esistenza non è disgiunta da un intrinseco senso di giustizia ("La pallida Morte bussa ai tuguri dei poveri e alle torri dei re") e che inoltre "è bello e onorevole morire per la patria", ma una malinconia invincibile detta le parole che il poeta rivolge all'amico in una celebre ode: "Ahimé fugaci, o Postumo, scorrono gli anni, né la pietà verso gli dèi potrà rallentare le rughe e la vecchiaia che incalza e la morte inesorabile". Invano avremo evitato guerre e malattie; tutti dovremo oltrepassare il confine dell'oltretomba, "bisognerà lasciare la terra e la casa e la sposa amata, e di queste piante che coltivi nessuna, a parte gli odiosi cipressi, seguirà te, padrone per breve tempo".
 
Franco Bergamasco
(traduzioni di Angelo Roncoroni, Carlo Signorelli Editore)

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