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progetto rivivere

Il "Servizio di aiuto psicologico alle persone in situazione di crisi, separazione e lutto" del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Bologna, fondato e coordinato da chi scrive, da più di dieci anni assiste coloro che devono elaborare una perdita. Al servizio arrivano richieste di aiuto da tutte le parti d'Italia, e da queste richieste difficili da soddisfare deriva il Progetto Rivivere: promuovere la costituzione di una rete nazionale di aiuto per le persone in lutto.

Il Progetto, fatto proprio dall'Università di Bologna, si articola in due sezioni che prendono il nome da due personaggi della Grecia classica: Apollodoro e Niobe. Apollodoro rappresenta l'impostazione concettuale del progetto e attiene l'aiuto a tutte le persone in lutto; Niobe richiama l'inconsolabilità per la perdita e riguarda l'aiuto a coloro che hanno subito un lutto traumatico (morte per incidente stradale, morte di un bambino, morte per suicidio, morte per omicidio, morte per catastrofe...) suscettibile di complicarsi e di diventare patologico. Comincio oggi a parlare di questo progetto che interessa non solo coloro che possono avere bisogno di aiuto per un lutto (tutti noi), ma anche coloro che a qualche titolo si occupano della morte e del morire. E comincio da Apollodoro, cioè dalla impostazione concettuale.

APOLLODORO
Alla morte di Socrate, personaggio mitico della nostra cultura, le donne piangono troppo e bisogna allontanarle. Anche uno degli amici del filosofo, Apollodoro, non smette di piangere, smentendo così la prescrizione socratica secondo la quale morendo basta sacrificare un gallo ad Esculapio e andarsene tranquilli dopo aver salutato gli amici. Apollodoro non crede, a differenza di Socrate, che nella morte il filosofo risplende nella propria divinità perché ormai libero dalla propria corporeità che gli fa velo. Per Apollodoro nella morte c'è un eccesso, una drammaticità irriducibile, una emozione senza misura "contraria ad ogni sforzo di consolazione" (E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, Jaca Book, Milano, 1996). Il sapere di sé che si compie, la teoria che vince l'angoscia di morte, allorché come Socrate si sa morire, non convince le donne e non convince Apollodoro: c'è ancora un piano affettivo, una emozione che alimenta il pianto e lo può rendere inconsolabile.

Nella cultura contemporanea questo problema si manifesta fondamentalmente in due forme: la prescrizione di smettere di piangere, di piangere con misura, favorita dai rituali del lutto e dalla repressione delle emozioni; la repressione del pianto allorché i rituali antichi o quelli religiosi vanno in crisi, o quando la repressione delle emozioni non riesce. Ed è a questa prescrizione e a questa repressione che si possono far risalire le principali patologie (psicopatologie) del lutto, cioè il fatto che i lutti siano ritardati, bloccati o distorti.

La vita della maggior parte di noi è segnata da qualche lutto non risolto a causa dell'impossibilità di esprimerne le emozioni; per non parlare dei casi più gravi di coloro che sentono l'emozione dell'inaccettabilità della morte e non possono esprimerla perché cozza con i modi prescritti di vivere il lutto.

Ma perché bisogna fermare l'emozione del lutto e dare una misura al pianto?

Perché, si risponde da più parti, non ci sarebbe compatibilità tra il vivere e il desiderare chi non c'è più.

E se chi se ne è andato fosse insostituibile? E se continuare a desiderarlo continuandolo a piangere fosse l'unica possibilità per tenerlo ancora tra noi?

Chi è in lutto può essere aiutato se si ammette che ci sia compatibilità tra l'inconsolabilità per la perdita di una vita (che è il desiderio di chi non c'è più) e il desiderio di altre vite (che è il desiderio di chi c'è e di chi ci sarà). Altrimenti non resta che favorire la sostituzione più rapida possibile di chi non c'è più o l'illusione che "sentire" chi è morto come vivo dentro di sé significhi che egli è effettivamente ancora vivo. Soluzioni ovviamente più praticate oggi della soluzione socratica, ma altrettanto razionali e misurate.

Cosa c'è, infatti, di più razionale che sostituire chi mancando fa soffrire, o far vivere dentro di sé come parti di sé coloro che non ci sono più? Soluzioni non da filosofi, ma altrettanto razionali e altrettanto efficaci per vincere la drammaticità della morte.

Ma può accontentarsi chi ti vuol bene di sostituirti o di seppellirti vivo nella sua interiorità come un oggetto psichico (o di farti vivere in un'altra dimensione)? C'è nell'uomo anche la possibilità di sostituirsi a chi non c'è più continuando la sua vita? E non si acuirà il desiderio di chi è morto ogni volta che ci sostituiremo a lui? Non risorgerà l'emozione drammatica della morte proprio come corollario dell'unica possibilità di pareggiare la partita con essa vivendo anche per chi non c'è più?

Ecco: solo da chi è inconsolabile ti puoi aspettare che non ti sostituisca o non si accontenti di qualche illusione che ti fa apparire vivo.

Apollodoro (insieme alle donne) piangendo inconsolabilmente è l'unico che continua a sentire la irriducibile drammaticità della morte di Socrate, l'unico che lo può veramente difendere dall'ingiustizia subita morendo. Apollodoro, continuando a piangerlo, dimostra che continua a desiderarlo in vita: nella inconsolabilità del suo pianto c'è il germe dell'unica possibilità che Socrate resti vivo, cioè che resti vivo attraverso il desiderio di chi continua a desiderarlo e a piangerlo. Ma bisogna che Apollodoro non sia allontanato, che non sia lasciato a piangere da solo: egli deve essere aiutato a non soccombere al suo pianto e alla repressione del suo pianto.

Se un lutto è tanto più difficile da elaborare quanto più è ingiusta la morte, se tutte le morti sono ingiuste e se le morti traumatiche sono le più ingiuste, allora Apollodoro è una figura dell'inconsolabilità che può rappresentare anche l'inconsolabilità che si rischia in ogni lutto e quella che è quasi certa di coloro che somigliano a Niobe, cioè alla madre tebana i cui quattordici figli una dea, che ne ha solo due, fa morire per invidia, e che gli altri dei per pietà trasformano in una roccia da cui sgorga una sorgente perenne (di lacrime, naturalmente). Nel senso che aiutare Apollodoro è il senso universale dell'aiuto alle persone in lutto, da quelle meno inconsolabili a quelle più inconsolabili.

 
Francesco Campione

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