- n. 7/8 - Luglio/Agosto 2012
- Cultura
Le piramidi
Molto più che una casa per l'aldilà
Maestose nel caldo profilo di sabbia egiziano, le piramidi, tra le quali svetta quella di Cheope, unica delle sette antiche meraviglie giunta fino a noi, ancora oggi mantengono custoditi preziosi segreti che riguardano la loro storia. Di sicuro furono costruite nell’arco di 2.500 anni, in gran parte durante l’Antico Regno, fra il 2686 al 2181 avanti Cristo. A questo periodo risale la prima costruzione riconducibile alla loro tipologia, sebbene la tomba monumento di Djoser a Saqquara, risalente ad un periodo tra il 2630 e il 2611, abbia una struttura a gradoni più simile alle ziqqurat babilonesi.
Tombe o cenotafi, oggi si ipotizza che fossero anche qualcosa di più: strumenti astronomici che indicavano il nord, gigantesche opere pubbliche realizzate per dare lavoro alle centinaia di migliaia di contadini durante gli allagamenti autunnali del Nilo o templi al dio Sole, identificato con il faraone e celebrato dalla potente élite dei sacerdoti di Eliopoli che avevano sconfitto quelli di Menfi e che guidavano il Paese. La divinizzazione della figura del faraone, assimilato al dio-sole Ra, il suo culto e la nascita di una religione di stato furono fondamentali per tenere uniti Alto e Basso Egitto che, intorno al 3.000 a.C. con il sovrano Menes, formavano ormai un solo regno. Alla genesi delle piramidi contribuì sicuramente anche la credenza che la sopravvivenza dell’anima dopo la morte dipendesse dal mantenere intatto il corpo della persona scomparsa. Il cadavere doveva essere conservato tramite la mummificazione e con la costruzione di appositi edifici per la sua custodia, atti a contenere anche gli oggetti di uso quotidiano e le mummie di animali che accompagnavano il defunto. All’inizio la speranza di una vita ultraterrena era limitata al faraone; e solo con il passare del tempo si allargò alla sua famiglia, per poi estendersi a ministri e sacerdoti fino a coinvolgere tutta la sua gente. Il corpo veniva mummificato; gli organi, ad eccezione del cuore e dei reni, erano riposti in contenitori separati e spesso in stanze diverse. La pelle e le ossa erano immerse a lungo nel natron, un sale asciutto che assorbiva i liquidi del corpo e che ne bloccava la decomposizione. Completamente avvolti in garze di cotone impregnate con resina o con colla, i resti venivano adagiati in una bara a forma di corpo umano, a sua volta riposta in un sarcofago di pietra che veniva collocato in una stanza chiusa, coperta poi con un cumolo di terra detto mastaba. Con il passare del tempo la mastaba divenne rettangolare, sormontata da cumuli più piccoli, fino a che la tomba prese una forma a gradoni, simile alle ziqqurat di Babilonia o d’Assiria. Man mano che ci si avvicina alla quarta dinastia, la piramide a gradoni iniziò a sparire per essere sostituita da una a geometria pura, a base quadrata e con quattro facce triangolari.
Lo scopo era quello di nascondere le camere del re che, poste nella roccia viva o all’interno della piramide stessa, erano raggiungibili percorrendo stretti corridoi. Una piramide era predisposta per contenere altre camere più piccole, alcune dedicate alla custodia dei vasi di alabastro con le interiora, una per la tomba della regina, altre per i fabbisogni terreni del faraone compresi cibi e vestiti. Un complicato sistema di corridoi metteva in relazione i diversi ambienti; altri ne venivano aperti per la ventilazione o per ingannare gli intrusi. Vi era anche una sorta di sistema antifurto per bloccare i ladri: di solito nei cunicoli venivano posizionate tre saracinesche, pietre inserite in feritoie verticali. Dall’utilizzo di questo espediente nacque la leggenda che gli ultimi operai, per abbassare le saracinesche, venissero intrappolati dentro le piramidi e sacrificati al faraone. Ma le più recenti ricerche hanno dimostrato che venivano sempre predisposte botole di uscita.
Qualche segreto lo rivela la grande piramide di Giza, costruita da e per Cheope (“Khufru” in egiziano antico) attorno a un cumulo centrale di pietra locale con un rivestimento in calcare di Tura. Alta in origine 146 metri, con un’area di oltre 5 ettari, consiste di circa 2,3 milioni di massi, ciascuno del peso medio di circa 2,5 tonnellate, per un totale di 6,5 milioni di tonnellate di pietra. Il suo volume potrebbe facilmente contenere il duomo di Milano, quello di Santa Maria del Fiore, la basilica di San Pietro (la più grande chiesa della cristianità), l’abbazia di Westminster e la chiesa di San Paolo a Londra. È una immensa opera ingegneristica le cui tecniche costruttive sono ancora un mistero nonostante la perfezione in ogni singolo particolare. La lunghezza dei quattro lati della base varia al massimo di 20 centimetri e gli stessi sono orientati sui quattro punti cardinali, con un errore massimo di 5’5. Incredibile è la perizia con cui sono stati lisciati i massi di rivestimento, che combaciano così perfettamente tra loro che è impossibile infilarci persino una cartolina. Conosciamo però, grazie alle iscrizioni rimaste, i nomi dei gruppi che si sono occupati della rifinitura in loco dei massi: “Squadra della piramide a gradoni”, “Squadra della barca”, “Squadra vigorosa”, “Squadra resistente”. La complessità del lavoro prevedeva che gli operai fossero divisi in due tronconi, il primo con quelli non specializzati che estraevano la pietra dalle cave, costruivano rampe, sollevavano massi, e quelli ausiliari che lubrificavano le slitte con acqua, davano da mangiare alle squadre e riparavano le linee di trasporto; il secondo con quelli specializzati che lavoravano nelle cave di Tura e sul luogo per tagliare, preparare e predisporre le dime e le pietre ormai finite. Il primo gruppo constava di circa 70.000 persone e lavorava su base stagionale durante gli allagamenti del Nilo, mentre 10.000 persone lavoravano a tempo pieno. A conferma di ciò, accanto alla piramide di Chefren, sono state ritrovate abitazioni per circa 4.000 individui. Molte piramidi furono costruite contemporaneamente, con un impiego di 150.000 persone: un numero altissimo se si pensa che era lo Stato a provvedere al loro mantenimento.
Erodoto (Alicarnasso, 484 a.C. – Thurii, 425 a.C.), informato dai sacerdoti di Eliopoli, narra che per la grande piramide lavorarono 100.000 persone con turni di 3 mesi e per un periodo complessivo di 20 anni. Le piramidi, quindi, risultano essere una grande opera pubblica che garantiva parità economica ai contadini arruolati al servizio del re dio. Non era certo semplice rispedirli a casa, una volta terminati i lavori, senza pregiudicare l’equilibrio economico e sociale del regno: alcuni faraoni, che hanno occupato il trono per diverse decine d’anni, ebbero la necessità di avviare la costruzione di una nuova piramide, oltre a quella già fatta erigere per loro stessi, o dovettero terminare quella di un faraone morto anzitempo. L’interpretazione che più ne coglie il senso, pur non essendo scientificamente dimostrabile, racconta un desiderio recondito dell’uomo: fa riferimento ad una tradizione che narra come spesso, sopra il Nilo, i raggi del sole irrompano attraverso le fitte nubi e proiettino sulla terra coni di luce. La piramide sarebbe allora la trasfigurazione in pietra di questa fonte luminosa che simboleggia l’aspirazione dell’uomo a diventare “dio Sole”.
Francesca De Munari