OR LE BAGNA LA PIOGGIA E MOVE IL VENTO
Biondo era e bello e di gentile aspetto (Purgatorio III, 108) è uno dei tanti versi danteschi che, una volta incontrati, s'imprimono indelebilmente nella mente del lettore; ma l'un de' cigli un colpo avea diviso è però il séguito immediato: quel volto è segnato da una ferita. Si tratta di Manfredi, figlio naturale dell'imperatore Federico II di Svevia: nato nel 1232, morto il padre s'era impossessato in giovanissima età del trono di Sicilia, contro il volere della Chiesa, che sul regno meridionale vantava dei diritti, e che perciò lo scomunicò. La sua sconfitta e la sua morte nella battaglia di Benevento (1266), vinta da Carlo d'Angiò, alleato del papa, segnarono la fine della potenza ghibellina in Italia.
Cruciale in questo episodio è la polemica dantesca contro l'uso politico della scomunica da parte dei pontefici e contro la credenza diffusa che la morte in quella condizione comportasse di per sé la dannazione; e il poeta infatti immagina che Manfredi voglia far sapere attraverso di lui al mondo, e in particolare a sua figlia, di essere stato invece accolto dalla misericordia divina.
Ma è un altro l'aspetto del racconto su cui vorremmo fermare l'attenzione. Nel polemizzare contro il papa e il vescovo di Cosenza, Manfredi dice che, se non fosse stato per la loro ostinata malevolenza,
l'ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
dov'e' le trasmutò a lume spento.
Quello che qui il poeta mette in bocca al suo personaggio è il racconto del triste destino delle sue spoglie mortali, riferito anche da vari cronisti dell'epoca: tre giorni dopo la battaglia, alcuni soldati trovarono i resti di Manfredi e il sovrano francese volle che si rendessero gli onori funebri al nemico, che però, essendo scomunicato, non poteva essere sepolto in luogo consacrato. Il suo corpo fu perciò interrato a un capo del ponte sul Calore, vicino a Benevento e, secondo un'antica usanza funebre nobiliare, i baroni di Francia, passando presso la fossa, vi gettarono ognuno un sasso, fino a formarne un pesante cumulo - la grave mora - che l'avrebbe custodito con onore.
Ma l'odio tenace della curia pontificia contro di lui fece sì che il vescovo di Cosenza ordinasse più tardi la dissepoltura dei suoi resti, la loro traslazione senza croce e senza luci (sine cruce, sine luce, come era norma per gli scomunicati) fuori dal regno che aveva usurpato, e la loro ignominiosa dispersione nei pressi del fiume Verde.
Or le bagna la pioggia e move il vento: è il compianto per la sorte misera del proprio corpo, tema tipico della seconda cantica, al centro anche di altri famosi episodi; ma è anche un omaggio letterario al maestro, Virgilio, essendo questo bel verso dantesco una variazione di un passo dell'Eneide (VI, 363), riferito ad una situazione analoga: nunc me fluctus habet, versantque in litore venti - "ora il flutto mi tiene, e i venti mi rivoltano sul lido". E forse non a caso già all'inizio del canto, in altro contesto, Dante aveva voluto evocare il tema della sepoltura, proprio nelle parole di Virgilio, morto a Brindisi e tumulato a Napoli: Vespero è già colà dov'è sepolto / lo corpo dentro al quale io facea ombra: / Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto.