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A Mosca. dal 23 al 25 ottobre

Necropolis 2012 (1)

Mosca ci ha accolti col suo abito d’autunno. Le foglie gialle, rosse e brune già tappezzano i numerosi parchi ed i larghi viali della metropoli, capitale della Russia. La prima neve inizia a cadere proprio mentre ci dirigiamo a Vnukovo (uno dei tre aeroporti della città) per intraprendere il viaggio di ritorno.
Fra qualche settimana il lungo e silenzioso inverno russo si sarà impossessato dello sterminato paese (9 fusi orari: erano 11, ma nel 2010 ne furono cancellati due) fino, in certe regioni, a primavera inoltrata. Quello stesso inverno descritto, per la delizia dei lettori, da tanti scrittori russi e che ha costituito il “nemico invincibile”, un vero e proprio incubo per tutti quelli che, senza mai riuscirci, hanno voluto manu militari sottomettere quel Paese. Prima ancora delle armate hitleriane quelle francesi di Napoleone I avevano dovuto arrendersi (la battaglia della Beresina, l’affluente di destra del Dnepr, è da sempre il simbolo della disfatta della campagna di Russia) al “Generale Inverno”. Anche se tale approccio è stato fortemente modificato dopo il recente ritrovamento, negli archivi del Museo di Stato di Mosca, di alcune migliaia di manoscritti dell’imperatore giunti colà dopo alterne vicissitudini. Egli si era, com’è ben noto, lanciato nella campagna di Russia nell’estate del 1812. La battaglia di Borodino del 7 settembre contro le truppe del generale pietroburghese Mihail Kutuzov (che già aveva patito una cocente sconfitta nella “battaglia dei tre Imperatori” di Austerlitz – oggi Slavkov u Brna in Repubblica Ceca - assieme agli alleati Austro Prussiani il 2 dicembre 1805) aveva spianato al piccolo corso, pur se in condizioni disagevoli, la strada verso la capitale. Vero macello (40.000 soldati francesi morti su 130.000 e 45.000 russi su 112.000) essa era stata, in qualche modo, una vittoria di Pirro. In alcuni appunti, facenti parte del corpus ritrovato e scritto durante l’esilio di Sant’Elena, l’accidioso condottiero, facendo prova di una straordinaria lucidità, sostiene che proprio in quella vittoria si dovevano cercare i germi della futura ritirata. Tale era stato, infatti, il dispendio di energie dei suoi uomini che giunsero stremati alla seconda fase della campagna. In altri termini la partita era giocata già prima di cominciare. Tra i documenti acquisiti alcuni sono stupefacenti e di assordante attualità. I commenti ed i giudizi che egli porta sui suoi contemporanei sono validissimi anche ai giorni nostri. Un aforisma come, ad esempio, “un governo che non sa ammettere le proprie colpe è un governo che non sa come comandare” rappresenta, fuor d’ogni dubbio, un monito ai governanti attuali. Così come quando, rivolgendosi a chi vince (o a chi potrebbe vincere, aggiungeremmo noi, per meglio avvicinarci a certe realtà nostrane), egli chiosa “invece di prendersela con un uomo i potenti dovrebbero sempre cercare di essere meglio di lui”. Fatti, insomma, e non chiacchiere. Concretezza! “Si seulement...”.
Chi ha conosciuto Mosca durante gli anni del comunismo ha grandi difficoltà a riconoscerla oggi. Iosif Vissarionovich Djugashvili, il baffuto georgiano già seminarista a Tbilisi, la capitale dello stato caucasico, e meglio conosciuto come Stalin (che in russo significa “acciaio”, per sottolineare la durezza del personaggio), non ha finito, crediamo, di rigirarsi inquieto nella propria tomba. Tanto più che essa si trova sotto le mura del Cremlino a pochi passi dal Mausoleo di Lenin (Vladimir Ilich Oulianov, cui aveva fatto compagnia fino alla “destalinizzazione” voluta da Kruscev, nel 1956, dopo lo storico XX Congresso del PCUS) e proprio di fronte al tempio di quel capitalismo alla cui distruzione (oltre a quella, impietosa, dei suoi nemici interni) il tiranno aveva consacrato tutta la vita (pur non disdegnando, tra una eliminazione e l’altra, qualche sonora sbornia e qualche ora rilassante in compagnia di avvenenti fanciulle per le quali, dicono, il Nostro aveva una certa predisposizione).
Intendiamo riferirci all’imponente palazzo, capolavoro dell’architettura di fine ‘800, dei magazzini GUM (Glavni Universalni Magazin dove “glavni” - da “glava/testa” – sta per “principale”) da non confondere con i vicini ad altrettanto antichi ZUM (Zentralni Universalni Magazin) della via Petrovka (da gemellare urgentemente con Montenapoleone/Spiga/Condotti) situati proprio di fronte al “Vogue Café”, punto d’incontro della jeunesse dorée moscovita. Quelle stessa gioventù che vi si reca per un benvenuto riposo dopo aver instancabilmente percorso in tutti i sensi (le donne, altissime e felinamente eteree, inalberate ed ondeggianti su “stiletti” di almeno 12 centimetri) i precitati magazzini uscendone con veri e propri grappoli di borse griffate equivalenti verosimilmente a molti mesi, se non anni, di salario del quidam comune. Le stesse dopo aver assaporato qualche flute di champagne, soavemente sorretto da affusolate dita (possibilmente un Ruinart Brut Rosé o, in non spiacevole alternativa, un Cristal Roederer Millesimé) raggiungeranno in compagnia del cavaliere di servizio, forse il marito, il veicolo che le riporterà ai domestici lari, veicolo che, per i meno abbienti, potrebbe essere una Porsche Carrera. Vent’anni sono trascorsi dal ribaltone, ma in realtà siamo a migliaia di anni luce dalla spartana condizione in cui le stesse signorine campavano nei kommunalki, i famosi appartamenti comunitari sovietici dove la vita era meno monotona che fuori casa visto che servizi igienici e cucine erano comuni ad almeno cinque famiglie. Il lettore apprezzerà lo charme demodé di tale condizione. Quanto alle aulenze che esse emanavano, non si trattava di quelle, soavissime, delle essenze più rinomate dei “parfumeurs” parigini, ma di quelle, oh quanto più sanamente proletarie!, delle naturali secrezioni corporee che impregnavano ad aeternum del loro acre odore i tessuti dei capi in fibra sintetica indossati. Mascherate a malapena, nella migliore delle ipotesi, da qualche ersatz fetente ed autarchico. Pare che non manchino gli amatori di tali olezzi. Buon pro lor faccia. De gustibus non disputandum est!
Questo per dire come tutto sia cambiato, profondamente cambiato, con il risultato che la capitale russa è oggi una delle città più care al mondo. Senza, peraltro, perdere nulla del suo indubbio fascino. Nei luoghi simbolo come la Piazza Rossa, il Cremlino, lo storico caffè Pushkin, l’incredibile negozio di alimentari di Eliseevsky sulla Tverskaya, ma anche, e soprattutto, negli angoli più reconditi come quel vicoletto laterale dell’Arbat vecchia ove un piccolo monastero ortodosso, con alle spalle i rutilanti buildings della vicina Novi Arbat, ci ricorda che fortunatamente la Russia eterna esiste sempre. La Russia dei popi severi e tenebrosi, le cui voci rimbombano da dietro le iconostasi, e quella delle babushke (da “baba/donna” - ricorderemo per inciso che il nostro dialetto, quello triestino, ha mutuato dalle lingue slave la stessa parola “baba” per designare il gentil sesso) che, il capo racchiuso dal fazzoletto tradizionale, si segnano ripetutamente in chiesa riuscendo perfino a genuflettersi ed a devotamente prostrarsi malgrado l’artrosi galoppante. Le stesse, poi, che ritroveremo nei corridoi dalla metropolitana mentre vendono i propri manufatti: tovaglie, coperte, pullover e calzini di lana ornati da motivi decorativi che si trasmettono da madre in figlia. La Russia, ancora, degli innumerevoli monasteri e chiese, quella dei cieli artici, quella delle steppe, della taiga e della tundra, quella che chi vi nasce porta sempre nel cuore come parte intima ed imprescindibile di se stesso. Non a caso il russo, quando parla del proprio Paese, si riferisce sempre a “nàsha Rassìa”, la “nostra Russia”. Ad essa si sente permanentemente congiunto tramite un ombelico non secabile e condiviso con i conterranei, vengano essi da Est, da Ovest, da Sud o da Nord. Senso di appartenenza esasperato che spesso sfocia nell’eroismo quando si tratti di difendere la propria terra. Tutte le guerre, da quella contro Napoleone a quella contro Hitler, sono ufficialmente chiamate “patriottiche”. La Patria come valore supremo, quindi, mentre da noi spesso (non sempre, per fortuna: c’è ancora chi non si vergogna di proferire questa parola) se ne sente parlare solo in occasione della deposizione di qualche corona al Vittoriano chiamato anche, per metonimia, l’Altare della Patria da quando in esso riposa il Milite Ignoto. Molto più frequentemente le forze centrifughe hanno il sopravvento. Senza giungere alle folkloristiche velleità di certi separatisti le stesse regioni rappresentano, sotto le mentite spoglie di un ipotetico e non dimostrato snellimento amministrativo, uno strumento di potere i cui costi sono pagati dagli italiani che solo oggi, ma bisognava essere colpevolmente ciechi per non accorgersene prima, si rendono conto (gli ultimi fatti di cronaca sono altamente significativi) di essersi fatti bellamente buggerare. Ci vengono a mente certi articoli che una giornalista dalla penna infuocata e tagliente, Gianna Preda (del suo vero nome Giovanna Predassi, romagnola di Coriano il che spiega il suo carattere, nel senso buono, passionale) scriveva a suo tempo assieme ai suoi collaboratori sul giornale di cui è stata anche direttrice, Il Borghese. In tali articoli, che avevamo conservato fino a pochi anni fa prima che una improvvida decisione determinata da ragioni di spazio non ci spingesse ad alienarli, venivano descritti con profetica intuizione tutti i pericoli inerenti alla creazione di tali carrozzoni. Ci sono volute decine d’anni prima che Pantalone se ne accorgesse. Per i più giovani ricorderemo che il Borghese, creato nel 1950 da Leo Longanesi, personaggio di primissimo piano della storia intellettuale del nostro Paese, era un periodico politico e di costume espressione dell’area culturale della destra. Rara avis in un mondo tutto pecorescamente acquisito all’entusiasmo post-sessantottino. In esso, il cui motto era “disprezzare la democrazia con rispetto”, apposero la propria firma personaggi come Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini, un giovane Giovanni Spadolini e Giovanni Ansaldo. Ed ancora Alberto Savinio, Ennio Flaiano, Goffredo Parise, Nantas Salvalaggio e tanti, ma tanti altri. Ecco, forse erano proprio loro quegli italiani che, pur nelle loro diversità ideologiche e con percorsi differenti, amavano il proprio Paese come lo amano i russi. Ancora troppo pochi a nostro gusto.
 
[continua]


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