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Manzoni e la "spoglia immemore" di un grande

NAPOLEONE BONAPARTE

Nel 1821 Alessandro Manzoni (1785-1873) è nel pieno della sua unica, breve ma straordinaria fase creativa: dopo aver proposto al linguaggio poetico italiano una radicale svolta con gli Inni sacri, è impegnato nel secondo e più importante dei suoi esperimenti col teatro tragico, l'Adelchi (che è anche una profonda e pessimistica riflessione sul senso della storia), mentre già si sta impostando e avviando il grandioso progetto del romanzo; ma anche le urgenze della storia vissuta, contemporanea, si impongono: nasce così, nell'anno dei primi moti nazionali, l'ode patriottica Marzo 1821.

Ma non basta. Il 1821 è anche l'anno della morte di Napoleone Bonaparte, sconfitto e da sette anni in esilio solitario a Sant'Elena, e Manzoni non si sottrae all'impegno di una riflessione poetica sul destino di un tale protagonista della Storia; nasce così Il Cinque Maggio. È estremamente significativo il fatto che la poesia prenda l'avvio proprio dall'immagine del corpo di Napoleone ormai morto, la spoglia immemore. Il poeta vuole radicalmente distinguersi dalla folla di coloro che mentre era vivo l'avevano adulato trionfante o oltraggiato sconfitto; è proprio la scomparsa di un simile protagonista a suscitare una ben più profonda riflessione sul significato della sua parabola esistenziale, che sembra non trovare paragoni nella storia tutta dell'umanità (una storia bagnata di sangue: per Manzoni la polvere della terra è per definizione cruenta).

È così che, dopo aver rievocato con pochi tratti fulminanti - divenuti giustamente celebri - le vicende alterne di Napoleone, fino a ritrarlo nella grandiosa raffigurazione di arbitro fra due secoli, Manzoni fa scoccare con un solo verbo l'idea dell'improvvisa, definitiva caduta: E sparve. Dopo la sconfitta l'esilio, l'inattività, la solitudine non sono che un lento e inesorabile approssimarsi alla morte, nel corso del quale si immagina un uomo che si interroga sul senso della propria vita. Ma una risposta non si trova.

Napoleone travolto dall'onda dei ricordi, incapace di scrivere le sue memorie sta appunto a significare l'impossibilità di conferire un significato all'esistenza, e proprio da parte di chi nella storia degli uomini è stato protagonista al massimo grado. La sconfitta e la prossimità della morte questo appunto rivelano a Napoleone (o a ciascuno di noi?).

Ma ciò che nel pessimismo manzoniano non può avere senso è la vita degli uomini lasciata sola con se stessa, la loro storia cruenta, per lo più ingiusta e assurda. Non c'è speranza di salvezza e di senso se non nella fede in un altro, superiore piano di realtà. Ecco dunque Manzoni accogliere le voci di una conversione di Napoleone in punto di morte; ecco, a paragone dei campi eterni della vera speranza, i labili trionfi della Storia rivelarsi per ciò che sono, silenzio e tenebre. E come la poesia si era aperta sul motivo della spoglia senza vita del protagonista, su di esso anche circolarmente si chiude, con la stupenda immagine delle stanche ceneri che, abbandonate da tutti gli uomini, hanno ora accanto alla deserta coltrice un'altra, incommensurabile e salvifica Presenza.

IL CINQUE MAGGIO





Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.
Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.
Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l'avvïò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trïonfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

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