Rotastyle

Oriana Fallaci, in silenzio e dignità

E' morto il re, viva il re!

A Ofisa di Firenze il compito di accompagnare la scrittrice nel suo ultimo viaggio

"Esser donna è così affascinante. È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai. Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto tra tanti diritti" (da «Lettera a un bambino mai nato»).
"Io sono qui per provare qualcosa in cui credo: che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani, col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera" (da «Niente e così sia»).
"La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente" (da «Lettera a un bambino mai nato»).
"Per scrivere bisogna avere il sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi".

15 settembre 2006. Oriana Fallaci è morta in una stanza al quarto piano della casa di cura Santa Chiara le cui finestre si affacciano su Piazza Indipendenza e dalle quali si scorgono la cupola del Duomo di Firenze e un incantevole scorcio panoramico della città. La giornalista è stata assistita dalla sorella Paola e da un nipote, che l'hanno vegliata fino all'ultimo momento, assieme ad un medico di fiducia.
Del suo rifiuto di inutili farmaci, già se ne fa retorica.
Pochi intimi, oltre alla ristretta cerchia di parenti, erano a conoscenza del ricovero, del progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute e del suo rientro in Italia dagli Stati Uniti dove la Fallaci risiedeva stabilmente. Tra le disposizioni da lei impartite quella di togliere il suo nome dalla cartella clinica e di avere esequie in forma strettamente privata. Il servizio funebre è stato svolto da Ofisa. È stata sepolta nel Cimitero degli Allori, dove riposano uomini di ogni religione. Ultimo atto di integerrima coerenza: un territorio che accomuna nell'eterno riposo le spoglie di esseri vissuti con il mito dell'appartenenza e della libertà. Là dove giacciono tutte le persone a lei più care: i genitori, la sorella e, accanto, il ceppo di Alekos Panagulis, "l'uomo" della sua vita.
Le volontà espresse dalla grande giornalista fiorentina, paiono essere un forte messaggio lanciato al proprio mondo, una forma di ripudio in cui leggere, tra le parole ormai mute, l'eco ridondante di un suo ultimo rifiuto. Il rifiuto del clamore che glorifica la morte. Quella morte che, nel corso degli eventi di una vita avventurosa, troppe volte ha visto giacere violenta e dimenticata, prematuro effetto delle follie dell'uomo. E poi, il rifiuto di un commiato condiviso con la sua, la nostra civiltà occidentale, di certo decadente e sempre più distante da un vero Dio, spesso sorda e poco complice nella sua ultima, scomoda crociata.
Morire non è bello, ma ci tocca. Forse, ancora più esigente e duro è per chi, pur consapevole della fugacità del tempo, sente addosso il peso della responsabilità di essere una entità inconsueta e di portare sulle spalle il dovere di continuare ad esistere per seguitare a battersi nel nome di forti ideali, i propri, non importa se condivisi o vilipesi.
"Ho la morte addosso. Ho qualche anticorpo nel cervello, ma non ho molto da vivere. Però ho ancora tante cose da dire" (Cose che forse avrà detto nel colloquio privato, che si voleva segreto, con papa Benedetto XVI nell'agosto del 2005).
Dottrine scomode, principi teorici che scivolano tra le maglie della conoscenza comune e si inoltrano in radicali prese di posizione dalle valenze storiche che solo la storia ci restituirà nella loro giustezza o nella loro improprietà. Sono solo illazioni mie, pensieri di un anomalo scrittore per molti versi altrettanto critico, valutativo, sconveniente e assolutista.
La discrezione delle sue ultime volontà contrasta con il clamore del luttuoso evento. Un clamore quasi planetario, non da tutti i punti cardinali celebrato come avvento nefasto. Accade a chi ha saputo seminare attorno a sé grandi seguaci ed acerrimi nemici. È il destino di quei personaggi senza mezze misure, deputati a vivere nel clamore delle lotte e, poi, a non morire veramente mai. È un destino riservato a pochi, agli eroi; personaggi che saranno leggenda al di là del tempo. La discrezione delle sue ultime volontà contrasta con l'enfasi puntuale degli uomini politici che sono soliti usare le parole per lodare o per crocifiggere, a seconda del momento. Uomini di un mondo che era bersaglio anch'esso della sua critica aspra, lucida e senza mezze misure. In dispregio del lessico politico, Oriana Fallaci indignò, provocò, fu osteggiata fin nella sua Terra etrusca, e si difese da par suo, con la forza della penna. Lì avrebbe avviato uno scontro culturale che, nel corso degli anni, si è fatto sempre più acceso, tanto da approssimare laici e cattolici, fornendo spunti al pensiero che oggi viene definito Teo-Con. Carlo Rossella, allora direttore di Panorama, fu il primo a proporla come senatrice a vita e da allora il suo nome per palazzo Madama è ritornato spesso, senza fortuna. Vi sono luoghi comodi che non sono concessi di buon grado a personaggi scomodi. In una delle sue ultime interviste, concessa a Margaret Talbot del New York Times, Prodi e Berlusconi vengono liquidati con un gergale ‘‘two fucking idiots''; quanto alle elezioni politiche non ha votato, né in Italia né per posta da New York.
"Perché la gente si umilia votando? Io non ho votato. No! Perché ho una dignità. Se a un certo punto mi fossi turata il naso e avessi votato per uno di loro mi sarei sputata in faccia".
Oriana Fallaci è morta sapendo di morire. Ha chinato il capo di persona di fronte a quell'evento che tante volte, fin da bambina, partigiana in erba, le si è parato davanti in tutta la sua violenza. Morte che, negli anni a seguire, ha fotografato con gli occhi durante le sue molteplici, dure esperienze di reportage sui terreni devastati da quelle guerre delle quali ha sempre denunciato la profonda idiozia.
"Credo di avere subito un trauma durante la guerra con i nazisti: tutti i cadaveri che ho visto, e questo trauma non l'ho superato, ma l'ho soltanto sepolto".
Oriana Fallaci non aveva voglia di morire, ha combattuto una sua guerra personale con forza e con dignità, sapendo di dover perdere. Lo ha fatto dichiarando pubblicamente la sua malinconia nel dover abbandonare il campo, ma la paura no. Non si può aver paura di lasciare questo mondo in modo naturale dopo aver visto tante atroci morti premature. Non si può aver paura di morire dopo aver imparato a metabolizzare la morte. Non si può aver paura di morire quando si è raggiunta la consapevolezza che l'orgoglio, la libertà di esistere liberi e la nobiltà del vivere sono più importanti della morte stessa.
"Mi rallegra pensare di morire con coraggio come mio padre. Ma il più tardi possibile. Perché penso che nonostante tutta la sofferenza, e chissà cos'altro dovrà venire, sono felice di essere nata".
Prima di compiere l'ultimo passo, coerente con le proprie posizioni etico religiose maturate dopo i noti eventi dell'11 settembre 2001, con la schietta grinta di sempre ha voluto lasciare un monito alla sua terra di Toscana, dichiarando apertamente le proprie opinioni su certe intenzioni della patria del Rinascimento. Uno sfogo di collera che esplode quando si parla del progetto di costruire una moschea nel senese.
"Non voglio vedere questa moschea, è molto vicina alla mia casa in Toscana. Non voglio vedere un minareto di 24 metri nel paesaggio di Giotto, quando io nei loro paesi non posso neppure indossare una croce o portare una Bibbia. Se sarò ancora viva andrò dai miei amici a Carrara, la città dei marmi. Lì sono tutti anarchici; con loro prendo gli esplosivi e la faccio saltare per aria".
Oggi il mondo piange la morte di Oriana Fallaci, ma sento il dovere di dividere il mondo, il nostro mondo occidentale in due. Da una parte i suoi innumerevoli lettori: silenziosi estimatori di penna e di pensiero, gente dignitosa che ha saputo condividere il sogno di una donna libera, i suoi impulsi struggenti, le sue sofferenze, le sue passioni mirabilmente descritte in lingua italiana. Dall'altra parte, una parte opposta, coloro che piangono con manifestazioni di cordoglio anacronistiche e tardive.
Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, la presa di posizione della Fallaci rispetto al terrorismo estremista islamico e delle sue radici storiche, è nota a tutti, sebbene nei confronti della religione cattolica non sia mai stata tenera. Non lo è stata nella pubblicazione dei suoi primi best seller, non lo è stata nei riguardi di Giovanni Paolo II, pur stimandolo per aver contribuito alla caduta del comunismo, non gli perdonava di aver ignorato il pericolo rappresentato dalle minacce del fondamentalismo islamico nei confronti dell'occidente e l'aver chiesto scusa per le Crociate. Ma con Benedetto XVI aveva condiviso l'amore per i valori dell'Occidente e il rifiuto del relativismo, e il suo atteggiamento era decisamente mutato. Delle sue posizioni radicali e del suo atteggiamento sfacciatamente provocatorio è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ne è stata chiesta la condanna per dichiarazioni blasfeme e le proteste nei confronti di un razzismo dichiarato si sono sovrapposte. Condanne dalle quali la giornalista si è sentita quasi gratificata e che ha sempre trattato con quello sprezzo di chi è profondamente ancorato al proprio pensiero e non lo rinnega, neppure fosse l'unico contro il parere di tutti. Quasi con benevola ironia, rivolta a certe prese di posizione di facciata di chi non ha capito o non vuol capire. Giusti o sbagliati che siano, sono questi gli atteggiamenti di chi crede e non cede. Quasi si deride quando, riferendosi alle condanne, si paragona ad una strega da mettere al rogo come ai tempi dell'inquisizione.
Di Oriana Fallaci si potrebbe non smettere di scrivere mai. Forse è meglio fermarsi qui, sfuggire alla tentazione di farlo, non mescolarsi con la retorica e lasciare ad altri il compito di elencare i suoi best-sellers tradotti in trenta lingue e venduti in tutto il mondo; lasciare ad altri la comoda gloria di poter sguazzare a ritroso tra le considerazioni sulle sue prese di posizione nei confronti degli estremismi e dei potenti. Forse è il caso di soffermarsi sulla scomparsa di una grande donna, dura, forte, enigmatica, ma sicuramente triste e sofferente per la sua mancata maternità.
"Questo è sempre stato il mio dramma. È terribile. Voglio dire c'è gente che non vuole bambini, che vivono la tragedia dell'aborto e tutto il resto. Io non ho mai avuto il problema dell'aborto, ma il problema opposto. Io volevo fare bambini, non perderli. Così, quando morirò, morirò veramente".
Forse è il caso di soffermarsi sulla scomparsa di una penna sagace e potente; di una italiana che ha saputo far bene il proprio mestiere, rimpiangere e ringraziare quell'eccellenza nello scrivere, alla ricerca del massimo effetto comunicativo attraverso una cura maniacale nell'utilizzo di un italiano perfetto. E poi tacere, ricordare, aprire uno dei suoi libri, leggere, e con dovuta riverenza, riflettere. Non ha lasciato quel figlio che avrebbe voluto, dietro di sé, ma un'altra vasta eredità di pensiero e di spregiudicata, emancipata valutazione, senza collari né dogmi, senza schemi preordinati, né schiamazzi di partito, sì.
 
Carlo Mariano Sartoris



Oriana Fallaci è nata a Firenze il 29 luglio 1929. Il padre fu un attivo antifascista, talmente convinto delle sue scelte da coinvolgere Oriana, a soli 10 anni, nella resistenza con compiti di vedetta. Adolescente, Oriana si unì al movimento clandestino di resistenza, diventando un membro del corpo dei volontari per la libertà contro il nazismo. È agli avvenimenti di questo periodo della sua vita che viene fatta comunemente risalire la sua celebre tempra. Terminato il conflitto decide di dedicarsi alla scrittura in maniera attiva e continuativa. La sua eccezionale bravura la porta all'«Europeo», e al Corriere della Sera, come inviato speciale e poi come corrispondente di guerra: dal 1967 in Vietnam, poi nella guerra Indo-Pakistana, in Sud America, in Medio Oriente. In seguito si è dedicata alle interviste a importanti personalità della politica, alle analisi dei fatti principali della cronaca e dei temi contemporanei più rilevanti. Tra i suoi intervistati Henry Kissinger, il generale Giap, Golda Meir, Yasser Arafat, re Hussein di Giordania, Indira Gandhi, Alì Bhutto, Pietro Nenni, Giulio Andreotti, Giorgio Amendola, l'arcivescovo Makarios e Alekos Panagulis. Un confronto spesso a muso duro con il Potere incarnato negli uomini che lo detengono e che facendo la Storia determinano le vite di molti. Tra gli exploit più memorabili è da ricordare la sua infiammata intervista all'ayatollah Khomeini, leader del regime teocratico iraniano e poco incline a riconoscere diritti e dignità alle donne, contrariamente a lei, che è sempre stata all'avanguardia su questo genere di rivendicazioni.


"...Come dico nell'"Apocalisse", l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d'essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall'indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che, per non perdere la Libertà, a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l'autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d'essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l'attacco ci colpirà d'improvviso, udiremo le consuete scemenze. Colpa-degli-americani, colpa-di-Bush ...
... Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l'intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? ...
".
Soffermandosi sulle posizioni della Fallaci dopo gli attentati alle Twin Towers, alla luce delle più recenti tensioni tra mondo islamico e Santa Sede, si potrebbe desumere che la scrittrice, nelle sue più pessimistiche previsioni, avesse avuto profetica ragione, ma che le tante macchinazioni oscure della fantapolitica lasciano le fantasie più moderate e filosofiche a non escludere scenari alternativi. La storia ci insegna che più i grandi avvenimenti paiono scontati oggi, più diventano riscrivibili con l'andare del tempo. La sanguigna tempra di chi si getta in prima linea nella proclamazione dei propri ideali, sospinta da nobili virtù, quali il senso della giustizia e un indomito coraggio, può portare a lasciarsi travolgere da superficiale agonismo e semplificare ciò che, molto probabilmente, è talmente complesso da non divenire agevole da manovrare, neppure da chi tutto sa, o tutto ha macchinato. Viviamo in un mondo sempre più piccolo, inesorabile, indecifrabile, sofisticato e distorto. V'è ancora spazio per gli eroi?
CARLO MARIANO SARTORIS

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