- n. 7/8 - Luglio/Agosto 2003
- Letteratura
La morte: una “provida sventura”
La fama di Alessandro Manzoni è certo, e legittimamente, legata sostanzialmente al suo unico e decisivo romanzo e, secondariamente, ad alcune poesie. Eppure è bene non dimenticare che egli non è solo l'autore dei Promessi sposi e del Cinque maggio. Non è possibile sottovalutare l'importanza dei due esperimenti che Manzoni fece nel campo del teatro tragico. Lo studio delle due tragedie manzoniane, Il conte di Carmagnola e soprattutto Adelchi, rivela sempre nuovi motivi di interesse. Soffermiamoci appunto su quest'ultima tragedia, ed in particolare sul destino di un personaggio, Ermengarda, diverso dal protagonista, ma che solo erroneamente potrebbe definirsi secondario.
Quali che siano le mutazioni profondissime che questo genere letterario ha subito dall'antichità ai tempi moderni, resta ovvio che la tragedia si conclude, o comunque si incentra essenzialmente, sulla morte di uno o più protagonisti (a volte è una vera ecatombe). In questo caso si tratta di due fratelli, Adelchi ed Ermengarda appunto, i figli del re longobardo Desiderio che, nell'VIII secolo in cui la vicenda è ambientata, scatena una guerra di aggressione contro il pontefice, ma viene sconfitto dal re dei Franchi Carlo (il futuro imperatore Carlomagno). I due giovani principi sono però qualcosa di molto diverso rispetto alla stirpe cui appartengono, presentata nel testo come una stirpe di oppressori violenti e sanguinari, rappresentanti di tutto ciò che di oscuro e negativo la storia degli uomini usualmente comporta.
Ermengarda al contrario dai meccanismi della Storia viene stritolata, ne diventa la vittima innocente: quando Longobardi e Franchi erano alleati, era andata in sposa a Carlo, che la ripudiò successivamente, capovoltasi la situazione politica. Ermengarda non entra attivamente nei meccanismi narrativi della tragedia, non agisce: ospite di un convento, vive nella memoria del tuttora amatissimo consorte, divenuto ora, con una contraddizione appunto tragica, l'acerrimo nemico della sua famiglia, e non riesce a reggere alla notizia che egli ha ora una nuova compagna. Cade nel delirio, descritto in una scena della tragedia che è fra le più alte pagine che Manzoni abbia mai dettato, e si trova in punto di morte, circondata da suore e ancelle, quando un Coro (riprendendo un uso della tragedia greca antica) interviene interrompendo il succedersi delle scene. È in sostanza la voce dell'autore che parla, e che immagina di rivolgersi direttamente alla giovane morente.
E il nucleo concettuale, in ciò che il Coro dice, sta proprio nell'attribuire un significato, un valore, alla sua morte. La principessa, poi regina dei Franchi, Ermengarda ha avuto una vita felice, privilegiata (e non può reggere al ricordo di quella felicità, ora che un destino crudele e beffardo l'ha distrutta); pur personalmente senza colpa, apparteneva a quella stirpe brutale e violenta, ha condiviso di fatto i privilegi degli oppressori, di coloro che nella Storia vincono schiacciando gli altri, e in generale i privilegi dei potenti; ma il suo destino tragico travolgendola la ha accomunata ora a tante e tante vittime anonime e innocenti della Storia, appunto, (e il Coro parla in particolare di vittime femminili), alle “incolpate ceneri” che mai furono né saranno oggetto di odio, ma di compianto solidale. Il destino abbatte Ermengarda ma al tempo stesso la eleva; per questo quel destino, e la morte che ne è la logica conseguenza, sono, non così contraddittoriamente come sembra, una “provida sventura”.
Franco BergamascoCORO
Sparsa le trecce morbide Sull'affannoso petto, Lenta le palme, e rorida Di morte il bianco aspetto, Giace la pia, col tremolo Sguardo cercando il ciel.
Cessa il compianto: unanime S'innalza una preghiera: Calata in su la gelida Fronte, una man leggiera Sulla pupilla cerula Stende l'estremo vel.
Sgombra, o gentil, dall'ansia Mente i terrestri ardori; Leva all'Eterno un candido Pensier d'offerta, e muori: Fuor della vita è il termine Del lungo tuo martir.
Tal della mesta, immobile Era quaggiuso il fato: Sempre un obblio di chiedere Che le saria negato; E al Dio de' santi ascendere Santa del suo patir.
Ahi! nelle insonni tenebre, Pei claustri solitari, Tra il canto delle vergini, Ai supplicati altari, Sempre al pensier tornavano Gl'irrevocati dì;
Quando ancor cara, improvida D'un avvenir mal fido, Ebbra spirò le vivide Aure del Franco lido, E tra le nuore Saliche Invidiata uscì:
Quando da un poggio aereo, Il biondo crin gemmata, Vedea nel pian discorrere La caccia affaccendata, E sulle sciolte redini Chino il chiomato sir;
E dietro a lui la furia De' corridor fumanti; E lo sbandarsi, e il rapido Redir de' veltri ansanti; E dai tentati triboli L'irto cinghiale uscir;
E la battuta polvere Riga di sangue, colto Dal regio stral: la tenera Alle donzelle il volto Volgea repente, pallida D'amabile terror.
Oh Mosa errante! oh tepidi Lavacri d'Aquisgrano! Ove, deposta l'orrida Maglia, il guerrier sovrano Scendea del campo a tergere Il nobile sudor! | Come rugiada al cespite Dell'erba inaridita, Fresca negli arsi calami Fa rifluir la vita, Che verdi ancor risorgono Nel temperato albor;
Tale al pensier, cui l'empia Virtù d'amor fatica, Discende il refrigerio D'una parola amica, E il cor diverte ai placidi Gaudii d'un altro amor.
Ma come il sol che, reduce, L'erta infocata ascende, E con la vampa assidua L'immobil aura incende, Risorti appena i gracili Steli riarde al suol;
Ratto così dal tenue Obblio torna immortale L'amor sopito, e l'anima Impaurita assale, E le sviate immagini Richiama al noto duol.
Sgombra, o gentil, dall'ansia Mente i terrestri ardori; Leva all'Eterno un candido Pensier d'offerta, e muori: Nel suol che dee la tenera Tua spoglia ricoprir,
Altre infelici dormono, Che il duol consunse; orbate Spose dal brando, e vergini Indarno fidanzate; Madri che i nati videro Trafitti impallidir.
Te, dalla rea progenie Degli oppressor discesa, Cui fu prodezza il numero, Cui fu ragion l'offesa, E dritto il sangue, e gloria Il non aver pietà,
Te collocò la provida Sventura in fra gli oppressi: Muori compianta e placida; Scendi a dormir con essi: Alle incolpate ceneri Nessuno insulterà.
Muori; e la faccia esanime Si ricomponga in pace; Com'era allor che improvida D'un avvenir fallace, Lievi pensier virginei Solo pingea. Così
Dalle squarciate nuvole Si svolge il sol cadente, E, dietro il monte, imporpora Il trepido occidente; Al pio colono augurio Di più sereno dì.
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