- n. 2 - Febbraio 2007
- Letteratura
Sulla morte dell'imperatore si può scherzare
Dopo la morte gli imperatori romani - non tutti, a dir la verità - venivano divinizzati, era cioè riservato loro il privilegio di una cerimonia, l'
apoteosi (termine greco che significa "
trasformazione in dio"), in virtù della quale erano appunto annoverati fra gli dèi: ricevevano il titolo di
divus e si dedicavano loro dei templi. La cerimonia richiedeva che dopo la sepoltura si celebrasse un secondo funerale, il
funus imaginarium, al centro del quale non c'era il corpo del defunto ma una sua immagine di cera, un suo "doppio" che rappresentava la dignità imperiale stessa, incorporea e immortale; mai il cadavere, oggetto massimamente corruttibile e impuro, avrebbe potuto essere accolto nello spazio sacro di un tempio; la divinizzazione non riguardava la persona fisica: ecco perché due funerali.
Se tutti gli imperatori romani divenuti
divi hanno avuto due funerali, uno solo,
Claudio ha avuto due, diversissime, apoteosi.
Al maggior filosofo romano,
Lucio Anneo Seneca (4 a.C. circa - 65 d.C.) fu spesso rimproverata, già ai suoi tempi, una certa incoerenza fra teorie e comportamenti concreti, e una eccessiva disponibilità a mutare radicalmente posizione in seguito a esigenze (peraltro spesso realmente drammatiche) dettate dalle contingenze politiche. Con
Claudio Seneca aveva un conto aperto giacché in passato, in seguito ad un intrigo di corte, era stato condannato da lui a 9 anni di esilio nella squallida Corsica (paradiso vacanziero per noi, postaccio scomodissimo e tagliato fuori da tutto per i Romani), e per favorire l'agognato ritorno nella metropoli aveva ritenuto inevitabile improntare una sua opera, la
Consolatio ad Polybium, a toni di smaccata adulazione del
princeps.
Ma anche allora la vendetta era un piatto che si serviva freddo. Ecco dunque
Seneca, diversi anni dopo, cogliere l'occasione della morte di
Claudio, con relativa apoteosi, per dedicargli una
Apokolokyntosis, perfida operetta satirica il cui titolo vale più o meno "
trasformazione in zucca". Tale trasformazione nel racconto in realtà non avviene, per cui il titolo rinvia piuttosto secondo alcuni a un'idea di "
deificazione di uno zuccone"; il testo (che ha in alcuni codici il titolo di
Ludus de morte Claudii, "
scherzo sulla morte di Claudio") sfrutta in effetti tutto l'ampio repertorio di
gossip che, come sappiamo anche da altre fonti, circolava a carico di quell'imperatore negli ambienti a lui ostili, rappresentandolo come uno sciocco maldestro e ingenuo ma anche iracondo e ingiusto, e insistendo su suoi difetti fisici quali la balbuzie ed un accenno di zoppìa.
Assistiamo dunque alla scena in cui
Claudio muore, o meglio "cessa di sembrare vivo", e al posto del tradizionale, solenne referto sulle memorabili ultime parole del grand'uomo, eccolo che, dopo aver mollato un peto, spira esclamando
concacavi me, cioè "
mi sono smerdato". Mentre sulla terra tutti esultano per la sua morte
Claudio sale al cielo e si presenta agli dèi farfugliando in modo talmente incomprensibile da faticare a farsi riconoscere. Segue il concilio degli dèi, che ne respingono la divinizzazione, e lo scacciano anzi agli inferi, dove subisce un processo in seguito al quale sarà condannato a giocare a dadi in eterno con un bossolo bucato. Di particolare interesse l'episodio in cui, durante il tragitto verso gli inferi, l'imperatore assiste al suo funerale, celebrato da una folla festante, e solo allora si rende conto di essere morto.
È verosimile che il filosofo stesse già pensando alla sua operetta satirica nei giorni delle esequie di
Claudio, quando il successore
Nerone ne pronunciò in senato il solenne elogio funebre; ma chi poteva aver scritto per conto di quel ragazzo di diciassette anni il testo dell'elogio, se non il suo precettore,
ghost writer e consigliere (nonché futura vittima), cioè
Seneca?
Franco Bergamasco