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Il Delta

LA MORTE del grande FIUME

Tutti i fiumi del mondo hanno una sorgente e tutti i fiumi del mondo hanno una foce.
Ma, mentre le sorgenti sono più o meno tutte uguali, le foci presentano delle differenze fondamentali.
Le sorgenti sono sorgenti e basta: ci può essere un unico punto nella montagna in cui l'acqua sgorga dalla roccia o più punti nei quali la roccia o il suolo rilasciano piccoli rigagnoli di liquido purissimo.
In quest'ultimo caso l'acqua proveniente dalle più o meno numerose piccole sorgenti scorre giù dalle rupi apparentemente a casaccio e i geografi le hanno chiamate acque selvagge. Le acque selvagge o il rigagnolo proveniente dall'unica sorgente si riversano in un primo torrente montano che poi confluirà con altri corsi d'acqua per formare un fiume la cui crescita è determinata dalla lunghezza del suo tragitto fino al mare e dalle precipitazioni delle zone che attraversa. Dalla sorgente alla foce il corso d'acqua è un capolavoro di ingegneria naturale.

La prova dell'esistenza di una matematica della natura, di una matematica dei corsi d'acqua. Questi meravigliosi misteri mi furono rivelati da Bortolo. Bortolo è un nome tipico del nord-est italico, anche se sembra un nome da nano.

In effetti, chi lo portava non era tanto alto e aveva un accento tipico delle Tre Venezie. È da lì, come vuole la tradizione, che la scienza della geologia, proveniente dal mondo germanico, pene-trò nella penisola ed è da lì che, appunto, prove-niva Bortolo. Bortolo Franceschetti, ordinario di Geografia Fisica nel corso di laurea in Scienze Geologiche dell'Università di Torino dall'inizio degli anni '70 a metà degli anni '80.

Un simpatico e tenero ricordo per noi, allora studenti nella suddetta facoltà.
Il professor Franceschetti ci spiegava cose grandiose come se fossero state ricette di polenta della Valtellina, forse è per quello che le ricordo ancora adesso.
Poi ci accompagnava in escursioni straordinarie, in montagna o sulle colline piemontesi, e descriveva quello che sembrava semplicemente un bel paesaggio trasformandolo in una opera d'arte in continua evoluzione, il cui movimento, impercettibile, si poteva soltanto leggere come registrato nelle pieghe delle rocce, nei contorni delle colline, nelle anse dei fiumi.
Lui, come altri suoi colleghi e nostri maestri, sapeva leggere i simboli della storia della terra, quelli che per un semiologo sarebbero le parole di un racconto millenario.
E il professore ci rivelò appunto come il corso dei fiumi, e tutte le altre cose della natura, fossero fatte anche di matematica.
Ci spiegò per esempio che non esiste mai un torrente da solo, ma sempre due che confluiscono in un altro che a sua volta dovrà confluire in un terzo il quale senza meno deve essere stato creato a sua volta da altri due.E così via fino ai fiumi di quarta, quinta, sesta e settima generazione, e oltre.
Questa legge, naturale e matematica, è talmente inderogabile che se si individua un torrente solitario il geologo sa, senza ombra di dubbio, che l'area circostante è instabile e che prima o poi la tendenza evolutiva (termine tecnico) porterà al formarsi di un altro torrente.
Ovvero un rigagnolo d'acqua tenderà a formarsi e successivamente a svilupparsi erodendo lentamente, ma con la determinazione dei secoli, il terreno sottostante. Un processo tanto chiaro nel suo manifestarsi quanto misterioso nelle sue motivazioni.

La stessa cosa vale anche per le anse dei grandi fiumi. Non sono affatto casuali, ma seguono percorsi sinuosi regolati anch'essi dalla matematica e dalla fisica, disegnati da un insieme complesso di fattori che vanno dalle caratteristiche del suolo alla pendenza, dalle precipitazioni atmosferiche alla qualità dell'aria.
Questi percorsi cambiano nel corso dei millenni andando a formare le piane alluvionali, caratterizzate da formazioni geologiche chiamate terrazzi fluviali, come la nostra Pianura Padana. Non voglio dilungarmi qui sull'affascinante percorso dei grandi fiumi e sul loro misterioso e profondo rapporto con gli insediamenti umani, rimandando questo discorso ad altra occasione.
Desidero invece tornare all'inizio del nostro discorso e parlare della foce del fiume. In linea di massima possiamo distinguere due tipologie di foci, quella a estuario e quella a delta. L'estuario è un ambiente naturale creato dall'incontro tra un medio o piccolo corso d'acqua e il mare. Qui il fiume di fatto muore per donare la sua vita, l'acqua, al mare.
Qui il corso del fiume si interrompe mescolandosi alle acque marine per poche centinaia di metri o per pochi chilometri a seconda di quali sono le sue dimensioni. È una morte simbolica perché il fiume continua ad esistere nei millenni dalla sorgente fino alla foce anche se l'acqua che lo costituisce non è mai la stessa. Forse una morte metaforica messa lì anche per ricordarci che l'acqua (la nostra vita) scompare dal fiume (noi) per vivere insieme ad altra acqua in un altro posto (il mare) per poi forse un giorno tornare nello stesso o in altri fiumi.
Forse… io non lo so. Nella foce a delta avviene la stessa cosa: il fiume, un grande fiume, si riversa nel mare, ma qui tutto diventa molto, molto più drammatico. È una morte lenta e maestosa, che modifica enormemente il paesaggio creando territori caratteristici anche di dimensioni enormi, come interi stati. Come ad esempio il delta di fiumi come il Gange o il Mississippi dove sono addirittura nate (e ancora vivono) delle culture millenarie.
Nel delta del Mississippi è nato (e tuttora prospera) persino uno stile musicale, il "Delta Blues", così caratteristico da indurre appassionati italiani delle Valli di Comacchio a organizzare un Delta Blues Festival in terra italica invitando anche musicisti d'oltreoceano.
Se il delta è grande si può formare anche una vasta zona lagunare che, vista da terra, è un insieme di isole e isolotti e altrove un misto di aree palustri e fluviali mentre, vista dall'alto, è come un reticolo di acqua e terra.

Tutto questo soltanto per dire quanto sia lungo e drammatico il riversarsi di un grande fiume nel mare. Una massa d'acqua dolce gigantesca che va a mescolarsi, sempre più profondamente, con quella salata del mare.
Nel delta il fiume è alla sua apoteosi, ha una portata enorme, e proprio al suo incontro con il mare la sua maestosità si sfalda e si sbriciola per dare origine ad una altra cosa che non è né fiume né mare. Un territorio di passaggio, come una morte lenta e dolce che, paradossalmente, è alimentata da centinaia e centinaia di piccole, fresche e giovani sorgenti cristalline.
Mi sono trovato tre volte a visitare dei veri e propri delta fluviali di una certa dimensione. Una volta fu il delta del Niger, nello stato della federazione nigeriana chiamato appunto Delta State, un'altra il delta del Po, una terza il delta del Rio delle Amazzoni nella zona di Belém.
Vorrei raccontare brevemente delle piccole escursioni che feci in queste ultime due circostanze. Sebbene si tratti di fiumi e di posti del tutto diversi, in tutte le occasioni ne sono rimasto profondamente colpito, un po' per la grandiosità dei paesaggi, un po' per l'atmosfera vagamente da terra di confine di questi luoghi, forse corroborata dall'assenza del turismo di massa.
Più che terra si dovrebbe dire acqua di confine visto che di incontro tra acque dolci ed acque salate si tratta. Ma ciò che sorprende è la vastità di questi territori, che in realtà non hanno un vero e proprio limite visto che si passa impercettibilmente da un fiume di enorme larghezza ad una palude, poi ad una laguna, poi al mare o all'oceano.
Feci il giro del delta del Po in moto partendo da Ferrara e ritornandoci in un solo giorno. Non lo consiglio a nessuno non tanto perché è massacrante, ma perché meriterebbe di starci diversi giorni. Mia guida fu un amico del posto, anche lui motociclista e fotografo, che mi fece costeggiare quasi sempre il fiume e le coste marine in luoghi che, forse per via del periodo dell'anno (maggio-giugno), erano per lunghi tratti assolutamente deserti.

Appena usciti da Ferrara la strada si snodava sugli argini giganteschi del Po e mentre da una parte si poteva ammirare il fiume immerso nei boschi, dall'altra di tanto in tanto potevamo scendere dall'argine per addentrarci in quei paesini tipici del ferrarese resi familiari anche a chi non del luogo dalle vicende di Peppone e don Camillo.
Quando raggiungemmo la zona del delta incontrammo paesaggi diversi, a volte marini e palustri insieme. Ricordo un posto dove mentre da una parte si poteva ammirare il mare con dei piccoli porticcioli battuti dal vento, dall'altra si vedevano le sagome quadrate delle risaie.
Di tanto in tanto incontravamo delle trattorie o dei piccoli ristoranti, ma al di là di piccoli agglomerati e qualche paesino non si vedeva nessuno, ma proprio nessuno. Poco oltre, con il sopravvento dell'ambiente marino aumentava la brezza e, nella luce del tramonto, vedemmo nel mare increspato delle strutture fatte di grossi pali di legno disposti uno accanto all'altro che forse servivano per la pesca.
Il tutto era immerso in una atmosfera davvero surreale. Al ritorno, nella penombra crepuscolare, prima di abbandonare le stradine per immetterci sulle grandi arterie più agevoli, attraversammo una quantità di ponti su barche, alcuni dei quali anche a pagamento. Pareva di essere chissà dove in una altra epoca e non in Italia alla fine degli anni '90. Pensai alla grandiosità dell'ambiente che mi veniva regalata proprio dalla morte del fiume davanti al quale abito nella mia città.

In un'altra occasione mi trovai in una zona all'interno del delta del Rio delle Amazzoni. Non sarebbe esatto dire che "mi trovavo sul delta del Rio delle Amazzoni" perché ci vorrebbero dei giorni per girarlo tutto.
Ero a Belém, cittadina gradevole che proprio in quel periodo era stata proclamata capitale mondiale dell'ambiente. Aveva un grande porto con un bellissimo mercato retrostante, circondato da vecchie case coloniali.
Un giorno decisi di andare al mare. C'erano le onde e mi accorsi, quando mi tuffai, che erano fatte di acqua dolce. Fu così che scoprii che il mare era in realtà ancora il fiume, anche se l'altra riva si perdeva nella foschia, come se fosse stata una isola lontana. Il porto sembrava un porto di mare e così i pescatori con le loro barche, ma pescavano pesci tropicali di fiume.
Nella sua lunga, ultima trasformazione, il Rio delle Amazzoni regalava ancora chilometri e chilometri di paesaggi sconvolgenti, si comportava come una di quelle persone che vivono veramente, dando il meglio di se stessi fino alla fine, fino all'ultima goccia.
 
Mauro Villone


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