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Morire tra i nervosi sensi di colpa dei membri di una società civile

Lunedì 9 febbraio 2009, ore 20,30: mentre sto per scrivere su questa storia opinioni che non avrei voluto dire mai, la notizia mi raggiunge e sposta altrove ormai inutili parole. La ragazza è morta, si è spenta come ogni altro mio pensiero. Io, che rimasi in coma per tre mesi, adesso dormirò, assopendo tutti i miei disagi e, per osare esprimere ciò che non vorrebbe essere troppo stupido e banale, aspetterò domani.
 Martedì 10 febbraio 2009. Da settimane, quotidiani, telegiornali e cervelli della gente sono stati infarciti di notizie devastanti, martellanti: notizie di morte e di cliniche, di morte e di scelte politiche, di morte e di Costituzione, di morte e di religione. Una unica morte che è venuta, finalmente! Maledettamente vera, irreversibile salma destinata a decomporsi dopo l’ultima cena, privata dell’estremo soffio vitale, così come stabilito dal volere di un padre disperato e di un magistrato. La morte di un’unica ragazza sfortunata della quale mi trema l’anima persino a ricordarne il nome. Una morte che ha intaccato per sempre valori, dottrine, certezze e vanitose coscienze di tutti, scatenando confuse repliche al mistero, al senso della vita ed al mondo oscuro del trapasso terminale.
Non è il momento di far polemica, non lo è mai stato. Non mi sento neppure autorizzato a sfiorare ogni giudizio sugli attori principali di questa triste storia, ma a guardarmi dentro e poi attorno, sì. Vedo il mio disagio mescolarsi a quello di milioni d’altri sconcerti. Vedo turbamenti, confusioni blateranti, ma, una volta tanto, sincere. Vedo espressioni d’impaccio dipinte sulle smarrite certezze di volti importanti, sbattuti dinnanzi allo spietato occhio del video. Occhio imparziale, che ne immortala i ritratti tesi, le sopracciglia aggrottate, i toni isterici di chi è abituato a trovare sempre le parole giuste per mescolare come un sugo interessi, convinzioni, menzogne ed idee. Questa volta no! Questa volta la ragazza è morta, indietro non si torna. Adesso che la vita è spenta sul serio, nessuno sa veramente come, se ha capito, se ha sofferto, nessuno ha l’intero di tutti i perché. E noi, tutti un po’ correi, riscopriamo il fascino e lo smarrimento biblico che suscita il mistero.
Ascolto perplesso proclami e moralismi europei, deliri di presentatori impacciati, dispersi giornalisti, teutonici Papi, smarriti politici farneticanti, barbuti psichiatri, impassibili primari, dotti pretori ed ogni sorta di umani “quasi importanti”.
Tutti annaspano confusi, avviliti, e come me, tristi, tentando di esprimere concetti che non sono ben definiti né pienamente convincenti. Vi è quasi rispetto per ogni altra opinione, sperando sia la più giusta: una luce in un bailamme di non volute tenebre. È raro percepire una pur confusa sincerità, mescolata ad impotenza e a commozione. È raro vedere certe facce in televisione arrabattarsi, sapendo di annaspare. È il dubbio spacciato per certezza, quasi gridato con maggiore sentimento per esorcizzare i dubbi della fede o della ragione e per camuffare l’umana, propria debolezza.
Il problema è immane quanto inafferrabile, universale. Vi sono recenti e clamorosi casi di sventurati che non reggevano più il peso del vivere per scelta, per dignità, per limite alla sofferenza. Hanno fatto rumore occidentali urla di “legittimità!”.
La ragazza ha smesso di vivere diciassette anni fa, eppure per diciassette anni ha vissuto grazie all’amore di suore coerenti, ma soprattutto grazie al progresso, alla scienza, all’intelligenza che inventa macchinari in grado di tenere in vita chi se ne sarebbe andato senza clamore nemmeno molti decenni fa. La colpa del merito è di nuovi meccanismi, di nuovi farmaci. Non c’erano 60 anni fa, quando fu redatta la Costituzione. Ed è il caos in quest’Italia senza più anima.
Abbiamo creato smisurati mostri e grossi vuoti d’etica: ora si strilla al legiferare per creare un limite, uno spazio entro il quale agire in modo logico, umano, razionale e per stabilire i parametri del vivere e del morire, cercando accordo tra maggioranza e opposizione, così da potersi spartire un giorno, smarrite coscienze.
Per salvarsi dalle macchine si dovrà morire politicamente e legalmente in regola, con firma autenticata su testamento biologico redatto dal notaio. Amen e così sia.
È la grottesca confusione generata nelle menti da un singolo decesso divenuto un caso di coscienza internazionale. Il giuramento medico è “salvare d’obbligo”, ma siamo andati oltre, salviamo “troppo”. Il caso ha sollevato l’immensità della folle distorsione. Ora manca un percorso preciso su come uccidere a norma di legge, rispettando i sacri voleri del defunto prossimo venturo ed evitando, così, esposti e querele. Com’è difficile sostituirsi a Dio o a chi per lui in modo razionale!
Oggi è il giorno del gran farfugliare. È il giorno delle lacrime corte e disorganiche. Non sono preparati i governanti, i giornalisti, gli opinionisti, i laici e i prelati, è confusa la gente comune. È terribilmente difficile decidere cosa, come, dove, a chi e quando farlo fare: uccidere l’innocente tenuto in vita in altro luogo e altro tempo per motivi non fortuiti, ma stabiliti dal regolamento.
Abbiamo fatto l’inganno, occorre creare la legge. Che legge dunque sia! Che abbia il tuo nome, piccola, sventurata, innocente eroina, “purosangue della libertà”, come ama definirti un padre che, di certo, ti ricorda meglio di tutti!
E poi, un dottore e un magistrato al posto di Dio! Facciamola presto, facciamola ora un’altra legge, pazzesca come è il mondo adesso. Sia giusta o sbagliata, ma facciamola, affinché si sappia come gestire poveri resti di carni ancora vive che la scienza ha voluto tali, evitando querele e Carabinieri. E noi, di che morte un dì ci sarà concesso di morire, senza l’umiliazione d’una sospettosa autopsia.
Ero disteso in un letto ventidue anni fa. Paralizzato dal collo in giù dopo un crudele incidente stradale. Le macchine m’impedirono di cessare di vivere. Dopo il risveglio ragionavo persino troppo bene, terrorizzato, allibito, disarmato di fronte ad una così smisurata, inattesa sventura. Immaginavo la vita che avevo davanti, vita di dolore, di umiliazioni, di incognite e di privazioni. Vita che così fu. Non so trovare aggettivi o avverbi per descriverla in modo compiuto ed esauriente. Attaccato a quelle macchine, ero di pessimo umore. Avrei voluto morire mille volte allora, ed altre mille fino ad oggi, mentre ne narro, sperso e tartagliante anch’io. Sono sopravvissuto molto menomato e sto scrivendo a fatica, con un dito di plastica applicato alla mano, quel che non avrei voluto scrivere mai. Ventidue anni di folle esistenza, non so se ne è valsa la pena, ma nel frattempo, nel tanto male e nel bene residuo, io ho pianto, ho riso, ho scherzato, ho amato, ho sofferto, ho goduto del colore di tramonti, ho guardato le mie figlie crescere, seppure di lontano, ho interagito con il mondo. Mi accorgo che ho vissuto.
Tutto questo, Eluana no. Altro del suo mondo scuro non so, o non oso dire.
Che il Dio la ricompensi per tanto, giovane spreco. Onore alla sofferenza di un padre e poi, che il Dio ci perdoni e ci mostri una nuova via per essere suoi degni figli. Mi pare che, ultimamente, ne abbiamo quanto mai bisogno. Di fronte ad un’unica, ma sempre immensa e misteriosa, e questa volta, insolita morte, riscopriamo di essere ancora piccoli, smarriti, maldestri, seppur evoluti e ingannevolmente laici, effimeri mortali.
 
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