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Morire in sei, laggiù, in quel paese lontano.
Morire soli, per il resto del sempre.

Funerali di Stato, la nazione piange i suoi eroi morti per la pace in una terra lontana. I giornali commentano, le madri piangono, i ministri scrutano e tacciono in quel momento di silenzio che la procedura richiede. Il sacerdote fa il proprio mestiere, toccando con sentito dispiacere argomenti terreni e dinamiche celesti. Le televisioni trasmettono il momento di dolore alla patria intera mentre in cielo sfrecciano veloci le frecce tricolori. Le bare coperte dalla bandiera sono sei. Sei vite spezzate di giovani soldati. Sei olocausti e tante domande che toccano la nostra mente. Sei vite sembrano tante, ma il morire in compagnia non allevia ogni singola sorte. Sei volte uno, così sono quei ragazzi morti, sono sei momenti terminali di quelle sei uniche vite. Mi sforzo di immaginarle, vite in apparenza simili eppure esclusive, irripetibili e così diverse. In questo momento e tra queste poche righe certamente dispiaciute, serpeggia una domanda: a morire in sei si soffre meno oppure di più? Morire da solo, in eguale modo estinto, trafitto da una pallottola indirizzata al cuore, morire saltando su una mina o solo per errore umano, morire laggiù in quella terra lontana, sporcando di sangue la mimetica divisa, morire uno soltanto, è meno gratificante? Quale è il numero di uniche vite trapassate che, sommate tra loro, meriteranno aerei che sfrecciano nel cielo ? Quante volte è successo di piangere un’unica bara accolta con tristezza, ma con molta meno enfasi. Dopo le esequie tutti riposeranno soli per il resto del tempo, riposti in piccoli cimiteri antichi e distanti tra loro. Non ha valore contare quante sono le anime colpite, sono sempre e solo una, moltiplicata per le altre che si sono spente assieme nel medesimo accidente. Ogni vita è un singolo miracolo. Se funerale di Stato deve essere, se questo morire maledetto in una terra lontana, se questo morire per una causa imprecisata, ma ci viene assicurato essere comunque giusta, se morire nel nome della patria e di un glorioso battaglione, se morire laggiù piuttosto che in una strage da incidente stradale vuol dire morire da eroi, allora che sia: uno per tutti, tutti per uno. Anche al solo martire di questa guerra indefinita, tra sabbia e gente che sento a noi remota, che sia tributato onore e gloria in eguale, solenne misura. Ad ogni singola vita che se ne va, che bandiere e preghiere siano. Si interroghino i potenti, i dottorali, i sapienti, i comandanti, noi, i civili occidentali. Ad ogni unico olocausto si chiedano e rispondano se la scelta che fecero fu giusta, se valeva la pena poi cantare le gesta del perito combattente. E questo sia per sei, per mille o per una sola vita di uno sfortunato, giovane soldato, morto solo, morto per sempre: e che gli aeroplani volino anche per lui, e che la gente si consulti, e che le televisioni parlino chiaro ed umilmente, e che i giornali scrivano, scrivano tanto e tanto onestamente. Sì, lo so, sono cinico nel pensare che in un funerale plurimo la spesa è suddivisa e che la notizia è più eclatante. Il mio sogno invece è che cuori, interessi e menti traggano ispirazione da ognuna, sola, eterna e prematura morte, senza aspettarne altre, senza dover contare fino a sei. Sanguinari sacrifici per esportare ellenica idea che fu democrazia laggiù, fra uomini barbuti e femmine diverse, accampati tra rocce e sassi; infinità di usanze e di pensieri antichi, tradizioni e orgogli mai sopiti, sentieri inesplorati, cani, tende, villaggi e campi: originari reperti arcaici, ma molto bene armati, arroccati a difendere una testimonianza di diversa, misteriosa, arcaica civiltà.
 
Carlo Mariano Sartoris


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