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Dieci anni con Fabrizio dentro, senza saperlo

Tutti morimmo a stento in direzione ostinata e contraria

Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Fabrizio De Andrè ed io mi sento semplicemente, maledettamente dieci anni più vecchio.
Non è normale trovarsi a riflettere su una morte e invidiarne il funerale, ma per me, forse un po’ filosofo squilibrato o forse solo radioamatore istintivo di vibrazioni e di onde che scaturiscono da strazi, da gioie e da sentimenti veri, essere ancora vivo di fronte ad una così plateale, fallita morte, mi rende geloso di chi, già bruciato e sepolto, non è ancora morto.
Faber non è morto nella storia della musica, nella magia della poesia, nella insuperabile capacità di interpretare ogni sfumatura inespressa dal sentimento popolare trasformandola in pubblica lirica. Fabrizio è vivo ogni volta che ascolto una canzone che ascoltai, che cantai, ed ogni volta ne scopro un verso del quale mi sfuggì la profonda logica celata dall’elegante e arguto costrutto.
Fabrizio vive tra le corde della mia vecchia chitarra e di altre mille, Fabrizio ha coinvolto la mia generazione nell’arte del vivere sofferto e intenso, contribuendo a sradicare i nostri giovani istinti da una morale comune e a tentare di pensare ad altro, più profondo e più libero. Suonando e cantando nelle sere tiepide, raccolti attorno ad una fontana, seduti su un muretto o là, nel parco che non c’è più, sulla panchina, siamo diventati grandi, fuori e dentro. Cantando al ritmo medievale e celtico di Re Carlo che tornava dalla guerra, dell’amore che strappa i capelli, di Piero che dorme in un campo di grano e di occhi grigi come la strada, mentre dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fior.
Siamo diventati grandi portandoci certe parole addosso.
E, adesso, cantano le mie figlie d’una gamba qua, una gamba là, del bombarolo, d’un gorilla e di un vecchio che aveva un solco lungo il viso, e poi di lei, di Marinella e della sua canzone. Le ascolto, sono brave, hanno studiato canto, però manca qualcosa, manca quel tempo fatto di altro cuore.
Ascolto e penso che comunque Faber vivrà ancora, vivrà più piccolo e meno devastante per giovani cuori, pensieri e coscienze, ma che ancora un po’ vivrà.
Sono cambiati i tempi, il romanticismo proletario, le stragi di stato, la critica pungente dell’attualità e l’ironia dell’essere tutti figli di un inafferrabile Dio, oggi sono argomenti di seconda scelta per un mondo nuovo e un’altra moda, ma ancora circolano sulle note di chitarre folk, tra giovani assisi su muretti e panchine.
De Andrè morirà un po’ di più solo quando moriremo tutti noi. Noi vecchietti a cui mostrò la strada per pensare ad altro, per valutare le culture domestiche, istruendoci, forse plasmandoci a guisa d’un pensiero molto suo, ma che si percepiva di grande qualità morale, insegnandoci ad amare, a sorridere e a sperare: noi giovani degli anni ’70, confusi e quasi consapevoli nel percepirci fortunati di essere così liberi, belli e giovani in un momento magico e irripetibile della storia della nostra volubile Italia.
E don Raffaè e il suo caffè faranno sorridere ancora chi verrà dopo di noi, e Bocca di Rosa metterà ancora l’amore sopra ogni cosa, ma trascinati dal tempo che va, già adesso mi paiono flebili e incomprensibili quei versi intrisi di poesia, d’arte, di ironia e di sensibilità, flebili e incomprensibili per chi non c’era allora, per chi non sa.
Ti saluto qui e brindo al tuo primo decennio di immortalità, caro Fabrizio.
Il tuo ciuffo resta, la tua cicca di cui trangugiavi il fumo resta, la tua voce calda e malinconica resta, restano i tuoi capolavori un po’ mistici e un po’ profani, mezzi francesi, mezzi sardi e mezzi genovesi. Resta una testimonianza di storia, di come eravamo e forse… di come non saremo mai più.
Dieci anni non sono molti, quel giorno pare ieri, o forse sembra che non sia successo mai, eppure, guardo il calendario: sono di dieci anni più vecchio.
Solo a certa gente è dato di fermare il tempo. Morire e rimanere vivo, amato e rispettato da tutti è il vezzo e l’aspirazione di ogni artista. Credo che le tue ceneri sorridano di questo, caro Faber.
Oggi, in tuo onore ho ascoltato “Storia di un impiegato”. Quante sfumature sempre da scoprire: pare d’entrare dentro un quadro metafisico dipinto da un susseguirsi metaforico di volti, di gesti e di genti pitturato con materiche frasi pennellate dalla forza descrittiva delle parole.
Sono quadri senza moda e senza tempo. Dipinti canori, capolavori che non moriranno mai. Cose che sanno fare solo certi cantautori.
 
Carlo Mariano Sartoris


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