- n. 7/8 - Luglio/Agosto 2002
- Letteratura
MONTALE E LA MOSCA:
un omaggio funebre in versi
Nel 1954
Eugenio Montale (1895-1981) detta gli ultimi versi che entreranno a far parte del suo terzo libro,
La bufera e altro (1956), quindi smette sostanzialmente di scrivere poesie. Il suo silenzio sarà lunghissimo, durerà circa dieci anni. L'occasione per interromperlo è data dalla morte della moglie, Drusilla Tanzi, che avviene nel 1963: nascono così due serie di poesie a lei dedicate, intitolate
Xenia, il nome che i Latini davano agli omaggi offerti agli ospiti quando lasciavano la dimora che li aveva accolti.
Gli Xenia, pubblicati dapprima in forma privata, confluiranno poi nel quarto libro di Montale,
Satura (1970), contribuendo al cospicuo
choc che esso provocò nei lettori, ribadito dalla successiva, copiosa produzione senile del poeta.
La nuova poesia di Montale abbandona il linguaggio e lo stile alto, arduo, che l'aveva caratterizzata dagli anni '30 in poi: assume una forma quasi diaristica, accoglie largamente spunti tematici e linguaggio dalla "prosa" della vita quotidiana; ironia e satira vi trovano ampio spazio.
È l'unica possibile, sembra voler dire il poeta, nella nostra società massificata, nell'epoca del "trionfo della spazzatura".
In questa sorta di omaggio votivo alla memoria della moglie (soprannominata Mosca dagli amici) compaiono fantasie, ironiche e commosse ad un tempo, di comunicazione:
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo morti senza saperlo.
Ricorda di lei la capacità istintiva di vivere senza troppo farsi ingannare da valori, intellettuali e sociali, più appariscenti che autentici:
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di essere visti anche al buio e smascherati
dal tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
La mancanza, la perdita della persona cara genera un senso di vuoto: al suo sguardo miope corrispondeva in realtà la capacità di vedere e capire la vita in profondità, al di là della superficie visibile, dello stordimento di scadenze e impegni pratici quotidiani:
Ho sceso, dandoti il braccio,
almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
Non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Franco Bergamasco