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IL MODO IN CUI FILIPPO INCONTRĂ’ LA MORTE NEI VIGNETI DEL ROERO

Mio padre è un genio.
Oh! Non in tutte le cose s'intende, ma per certune è un genio. Correva l'anno millenovecentosessantatre quando mio nonno, suo suocero, dunque il padre di mia madre, stava per morire di cancro alla gola.
Era un appassionato della vita, della natura, di agricoltura, del buon cibo.
Una persona insomma che, come molti di noi, amava gustarsi la vita. E se l'era anche gustata a onor del vero. Infatti lui amava sostenere che la sua malattia era la punizione per tutte le cazzate che aveva fatto nel corso della sua non comune esistenza.
Doveva essere davvero un tipo giusto da come ne parlavano gli altri e anche a me devo dire, sebbene i ricordi che ho di lui siano pochi (ero un bambino di cinque anni quando morì), pareva una persona meravigliosa.
Lo ricordo mentre rimestava con un bastone in un grosso pentolone dei tessuti insieme a dei coloranti, in uno degli antri della sua azienda chimica che si trovava in via Monza a Torino.
Stava realizzando per me una tenda da indiano.... Sì perché lui amava gli indiani, il west e tutte quelle storie lì. Le amava talmente che aveva persino fatto il gaucho nelle Pampas argentine negli anni '20 e '30, periodo nel quale si occupò di una grande azienda, con più di tremila capi di bestiame, che si trovava a Rio Cuarto, nel distretto di Mendoza.Ed è lì che, nel 1931, nacque la mamma.
Tornando agli anni sessanta ricordo di una vecchia splendida casa in quel di Giaveno, paesino quasi montano nei pressi di Torino dove andavamo a trascorrere l'estate.
Un giorno, proprio per la morte imminente del nonno, quella casa venne venduta e mio padre, terrone, ma anche lui amante della vita e delle buone cose decise di cercarne un'altra da qualche parte.

Alcuni amici ci presentarono il proprietario di una vecchia bicocca fatiscente che si trovava sulle colline vicine all'abitato di Canale d'Alba, un paesino ridente dell'antica Contea dei Roero, nella Provincia Granda.
Era una cascina che si trovava stretta tra altre in un lungo caseggiato tipico delle campagne piemontesi, con un'aia antistante dall'altra parte della quale si trovava un altro lungo caseggiato, costituito dalle stalle sovrastate da fienili. L'aia di queste tipiche costruzioni è esposta a sud ed è sempre assolata di pomeriggio, mentre dietro la casa si trova sempre, tipicamente, un boschetto di alberi da frutto, magari un giardino o un piccolo orto.

Questi piccoli capolavori, prodotti nient'altro che da sana, quotidiana saggezza popolare, oggi sono di moda e valgono una fortuna, ma allora chi andasse a comprare o anche solo a soggiornare in posti così era considerato un poveretto, uno con strane idee, ridicole e patetiche.
E qui, nella storia, scatta il genio di mio padre. Che non si manifestò nell'acquisto della casa, come si potrebbe pensare, no! Semplicemente propose ai proprietari un contratto di locazione gratuita in cambio dei lavori di miglioria all'abitazione.
Ora, mio padre non solo era un antesignano del popolo di Seattle, ma anche di quello che da due o tre decenni viene definito "bricolage" (ma non esiste proprio un termine in italiano?), ovvero sapeva fare da se pressoché qualsiasi lavoro.
A tutto questo aggiungi che i miei genitori avevano molti amici, ognuno con la sua specializzazione in qualcosa, ed ecco che la stamberga ben presto si trasformò in albergo, con gente che andava e veniva, per i lavori o per vacanza o per diletto.
Non fu un impresa facile. E non ci vuole molto a capirlo se si pensa che la casa era veramente totalmente abbandonata da anni.
Il problema non era tanto lo stato delle pareti ammuffite e delle macerie che vi si trovavano qua e là e nemmeno la "selva selvaggia e aspra e forte" che si trovava sul retro della casa.
Il problema era il grosso fico che cresceva in cantina, vicino alla montagna di rifiuti, e che nei decenni era cresciuto così tanto da dover uscire dalla finestra per andare a cercare un po' d'aria fresca lontano da quel casino.

Come dicevo, vicino a questa casa ce n'erano altre. In particolare se ne trovavano una alla sua destra e due alla sua sinistra abitate dalla popolazione del luogo. In quella alla sua destra ci stava Gundu, un uomo con moglie e cinque figli, così amato dal vino da non esserne mai abbandonato, neanche per un giorno.
In quelle a sinistra nella prima abitavano Pasqualina e Filippo che avevano un figlio che si chiamava Mario e in quella dopo Tunin e Teresa con i due figli, Beppe e Francesco. Poi, sparse sulle colline vicine, si trovavano altre cascine abitate da altri personaggi interessanti.
Dico "si trovavano", ma si trovano ancora solo che raccontare queste cose (avvenute decenni o millenni fa?) si sviluppa nel mio cervello una sorta di effetto "C'era una volta" che produce in me una sensazione di leggera commozione mista a divertita incredulità. Ovvero: sto parlando della mia vita o di quella di un altro? Sì perché il mondo di allora è veramente tanto, tanto diverso da quello odierno. Non migliore o peggiore, solo sorprendentemente diverso.

Comunque, e stiamo parlando di quasi quarant'anni fa, quei posti non erano certo una meta turistica e nemmeno enogastronomica, erano semplicemente delle campagne, abbastanza popolate e intensamente vissute dalla gente del luogo, che vedevano l'approssimarsi del crepuscolo di una cultura antica, una cultura che definirei umana con tutte le sue implicazioni, sia positive che negative.
La gente del luogo parlava a fatica l'italiano, anche perché la televisione non era ancora entrata in quelle abitazioni, parlava invece un dialetto della lingua piemontese diverso da quello che si parla a Torino.
In tutto il Piemonte, a testimonianza della scarsa capacità di movimento del suo popolo, ogni paese, ogni vallata ha il suo dialetto e le sue variazioni sulla lingua piemontese. Nessuno di costoro disponeva di un auto, il più tecnologico di tutti poteva avere un motorino 125 cc. e gli aratri erano trainati dai buoi.
Sembra di parlare di chissà che cosa, ma era l'Italia del Nord non più di trenta, quaranta anni fa. Si trattava di un'economia agricola, poco o nulla servita dalla tecnologia, e fortemente micronizzata, tutta spezzettata, per via delle caratteristiche del territorio, in piccoli appezzamenti a conduzione quasi esclusivamente familiare.
Non so se è vero, ma a me bambino, che amavo frequentare i vecchi contadini accompagnandoli nei campi e nelle vigne, questi uomini, pur nella loro grettezza, parevano di una saggezza infinita. Forse erano solo impegnati a delimitare e coltivare la propria terra per sopravvivere in condizioni che oggi sarebbero durissime anche per un contadino odierno, ma a me sembravano in qualche modo consapevoli dell'armonia con la quale erano legati alla terra e agli animali.

Come il vecchio Tunin, per esempio: un uomo piccolo, magro e forte, con una tristezza dolce nello sguardo. D'estate, di pomeriggio, l'aia scoppiava di sole e di caldo ed io, dopo mangiato sonnecchiavo nella mia camera da letto al piano superiore, fresca per via delle vecchie pareti spesse un metro.
A un certo punto sentivo i suoi passi nell'aia. Usciva di casa e andava a sedersi su un ceppo all'ombra del fienile e iniziava a battere con un martello sulla lama della falce per affilarla. Lo faceva per una o due ore e invece di disturbarci, quel suono legnoso e metallico insieme ci ipnotizzava facendoci addormentare come angioletti. Sì perché lì non ero solo, c'erano anche la mia sorellina e i cuginetti e i figli di Gundu con i quali giocavamo sempre.
Sempre Tunin poi parlava ai vitelli come se fossero stati dei bambini, e ai buoi che tiravano il suo carro come a dei compagni di lavoro. Sembrava un vecchio cowboy con la barba ispida, ma teneva molto a un gattino a cui aveva messo intorno al collo un nastro blu con un campanellino. Un giorno che io e uno dei miei cuginetti giocammo con quel gattino fino a buttarlo giù dal balcone rompendogli una zampina, lui voleva ucciderci a bastonate.
Ci costrinsero ad andare a chiedergli scusa. Eravamo terrorizzati, brandiva un vecchio bastone dalla cima delle scale di casa sua, fu come una visione mitologica. Dopo quella volta non feci più brutti scherzi agli animali, mai più.

Poi c'erano altri personaggi divertenti come Mike, il mio amico del cuore, che si chiamava così solo perché era nato in Australia quando i suoi genitori erano emigrati nel tentativo (vano) di trovare una vita migliore.
E Natalino, un bambino che abitava in un gruppo di cascine vicine, sempre a piedi nudi e che sembrava uscito da un dipinto piemontese dell'800. Nella casa adiacente alla nostra abitavano Pasqualina e Filippo.
Pasqualina non era quella della torta, ma si chiamava così perché era nata a Pasqua. Indovinate un po' quand'era nato Natalino. Pasqualina era per noi come una vecchia sciamana. Certo allora noi, io, mia sorella e i miei cugini, non sapevamo affatto cosa fossero gli sciamani, ma quando lo scoprimmo, molti anni più tardi, capimmo che quello che ci sembrava a volte essere quell'anziana signora era appunto una sciamana. Sì, perché faceva cose strane.
Ad esempio quando cominciava a piovere e il tempo sembrava così minaccioso da grandinare o comunque da rovinare i raccolti accendeva una candela, poi dava fuoco a un ramo d'ulivo e lo gettava dal limitare della soglia di casa sua in mezzo all'aia.
Talvolta venivano delle signore da altre vallate vicine perché avevano il figlio malato e lei andava nell'orto sul retro della casa a prendere un'erba curativa che solo lei aveva.
Pasqualina e Teresa, l'altra vecchia, ci raccontavano poi strane storie su quel posto. Dovete sapere che gli agglomerati abitativi rurali del Piemonte, ma anche di altre zone di tutta Europa avevano una caratteristica oggi quasi del tutto perduta: all'ingresso dell'aia tra le abitazioni e le stalle si trovava una pozza d'acqua di una certa dimensione attorniata da alberi che, nella maggior parte dei casi, erano degli olmi.

Questa pozza veniva chiamata nello slang della zona "Tampa" e i contadini stessi dicevano che serviva a lavare gli attrezzi quando si tornava la sera dai campi e questa è la spiegazione che danno anche molti antropologi.
Ma ci sono molti altri autori attendibili che sostengono una cosa ben diversa. A parte il fatto che io personalmente ben di rado ho visto utilizzare quest'acqua per lavare alcunché (era verde, fangosa e piena di alghe), mi sono ampiamente documentato sulla faccenda e, senza dilungarmi oltre in questa sede, vi dirò in sintesi cosa ho scoperto.
Sembrerebbe, appunto secondo alcuni autori di diversa provenienza culturale, che in origine tale polla d'acqua avesse una funzione rituale e simbolica che nemmeno i contadini conoscono visto che è un'usanza che si va a perdere letteralmente nella notte dei tempi.
Ma, e mi consento da solo il "ma", e chiedo clemenza nel giudizio dei lettori, per non essere tacciato di essere un individuo suggestionabile; ma, dicevo, tutto da solo, da me medesimo, ho notato, come riportato da certi testi, che tali pozze d'acqua hanno anzitutto una forma uterina e neanche troppo vaga.
Sembrerebbe, come accade in numerosi casi, anche relativi a culture scomparse, che l'uomo abbia voluto portare con se l'acqua, laddove non ci fosse naturalmente, non soltanto per ovvi ed evidenti usi pratici, ma anche per ragioni magico-religiose, così come è magico-religiosa la simbologia di diverse piante tra le quali gli olmi.

Il legame tra l'uomo e l'acqua è noto ed evidente a tutti, come dimostrano i grandi agglomerati urbani e le culture sviluppate nei pressi di piccoli e grandi corsi d'acqua, ma in realtà è un legame molto più profondo di quanto non si sperimenti nella normale vita quotidiana.
A proposito di ciò voglio sottolineare come sia proprio di questi giorni la notizia della formulazione dell'ipotesi da parte di diversi scienziati, in particolare antropologi, che l'uomo abbia avuto nel corso della sua evoluzione una fase acquatica.
Comunque, in fede alla mia promessa di non dilungarmi troppo sulla questione, torno a bomba sulla pozza d'acqua circondata dagli olmi nei pressi della nostra casa in campagna. E cosa ci trovo? Lì per lì niente, anzi gli olmi non ci sono più e non c'e più neanche l'acqua. Ma le due anziane signore, Teresa e Pasqualina, sostenevano che sulla cima degli olmi a volte, molti, molti anni orsono, si trovassero due eteree figure di vecchie, forse due masche, che sferruzzando, chiacchieravano amabilmente aspettando l'imbrunire.
Una leggenda, niente di più, ma mi sono dilungato in questo racconto per cercare di trasmettere il tipo di atmosfera nel quale ci si trovava immersi, sia i bambini sia gli adulti, in quel luogo.

Un'altra cosa che mi viene in mente è quando, la sera, dopo cena, senza televisione, radio e altri supporti tecnologici, ci riunivamo davanti alle case, nell'aia, sdraiati sull'erba, vecchi, giovani e bambini. I ragazzi del luogo intonavano delle canzoni tradizionali o alcuni dei primi successi che arrivavano nelle campagne negli anni '60, come "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano.
Sì, è stata una bella fortuna per me la lungimiranza di mio padre e di mia madre, perché crescere in quel posto, anche se solo nei mesi estivi, è stato utile per capire che la poesia non è solo un'astrazione teorica, ma vita vissuta nel quotidiano. Anzi quella casa e quei posti fanno parte di un mio progetto fotografico che si intitola "Quello che mi ha salvato la vita", fotografie di cose e persone che sono state importanti per me, come amici, parenti, il mare, la mia Nikon, l'Honda 600 e tutto il resto.
Ma tutto questo, io, la casa, i personaggi non sono i protagonisti di questo racconto, come si può facilmente evincere anche da una distratta lettura del suo titolo. Volevo solo dare un'idea generale del contesto nel quale ci trovavamo.

Il protagonista è Filippo. Filippo era uno dei personaggi, ma di quelli più fortemente caratterizzati. Io lo ricordo come un gigante, anche se forse in realtà non fosse tanto alto. Sicuramente era piuttosto massiccio e se dovessi ricordare delle calzature ai suoi piedi direi che fossero grossi stivaloni.
Apparentemente con noi bambini era uno dei meno affabili, sempre incazzato per qualcosa. O spargevamo la sabbia, o spaventavamo le galline, o facevamo troppo casino in generale. C'era sempre qualcosa che non andava e lui si incazzava. Dopo un po' di tempo avevamo però capito chiaramente che non avrebbe mai potuto essere veramente pericoloso per noi. Aveva anche dei momenti, non rari, di autentica poesia, che rasentavano il filosofico e, a volte, un mistico non-sense.
Come quella volta, nel luglio del 1969, in cui gli comunicammo che due uomini erano sbarcati sulla luna e lui ci guardò con un'espressione che era un misto di incredulità e pietà nei nostri confronti. Poi scoppiò a ridere, un po' seccato di dover frequentare per forza personaggi con simili idee.
Ricordo che una volta, non so per quale ragione, fece un breve viaggio di piacere insieme alla sua consorte, Pasqualina, in quel di Venezia. Quando gli chiedemmo se gli fosse piaciuto si mostrò molto contrariato per il fatto che non c'era neanche un pezzo di terra per piantare due pomodori.
Spesso il pomeriggio, dopo mangiato, prendeva un sacco di juta grezza e andava a sedersi sotto un nocciolo del suo prato vicino alla casa e io ogni tanto andavo a trovarlo. Mi sedevo lì vicino a lui ed era lì che diventava filosofo, raccontandomi un sacco di cose che mi sembravano interessantissime e intriganti.
Ad esempio scoprii che dire grano non vuol dire nulla perché ne esistono centinaia di varietà. Scoprii che arare non è arare, ma è un'arte antichissima che, come ad esempio lo yoga, si esprime nelle posture del corpo e nel rapporto con la terra e l'animale che trascina lo strumento.
Come pure gettare i semi non è gettare, ma eseguire movimenti con il braccio e con la mano, come i mudra indiani, che cambiano sempre a seconda del tipo di seme, del tipo di terra e dell'effetto che si vorrà ottenere.

Parlava del vino come di una persona. Potrei dire, anche se lui non lo sapeva e se forse andava a messa solo perché nei paesi è una cosa che devi fare, che parlava del vino veramente come se parlasse del "sangue di Cristo".
Mi parevano cose affascinanti e chi se ne frega se non sapeva nulla della Luna e di Venezia. Quell'uomo aveva un rapporto con la natura e con la terra che mi pareva sublime. Non faceva il contadino perché non aveva altre possibilità o perché il destino ce lo aveva messo.
Faceva il contadino perché amava fare l'amore con la terra. O almeno questo è quello che mi sembra se ripenso alla sua figura. Alcuni anni più tardi si presentò per lui l'ora della morte. Come del resto si avvicinava o era già arrivata per tutti gli altri vecchi della zona. Ma per lui non fu un incontro qualunque, fu un incontro un po' speciale, sempre che possa essere speciale un incontro che è già speciale per chiunque.
Si era in settembre e l'ora della vendemmia si avvicinava velocemente, prospettandosi anche un buon raccolto, visto che il tempo quell'anno era stato, bontà sua, amico. Filippo venne colpito dalla polmonite. E non erano per lui più gli anni del vigore in cui trattava i virus e i batteri come bruscolini.

L'autunno era umido e la polmonite riuscì a piegarlo. Ma si avvicinava la vendemmia e tutti speravano che guarisse e lo sperava lui per primo, soprattutto perché non poteva permettere che altri facessero il suo lavoro visto che era un capofamiglia e con quel lavoro dava da mangiare a una moglie e un figlio. Quasi tutti gli anni, com'è d'uso da quelle parti, anche noi davamo una mano a vendemmiare. E' un'usanza antica di solidarietà che ha funzioni molto pratiche.
Quando c'è un raccolto importante, di grano, di mais o di uva tutti gli abitanti di una zona vanno insieme a raccogliere nel campo o nella vigna di una delle famiglie e così via a turno fino a portare a termine il raccolto di ognuno. Avviene anche per altri lavori agricoli come la trebbiatura o altre cose simili. Filippo non guariva. Anche il dottore gli aveva detto di non fare cazzate e di stare a letto.
Mia madre intanto aveva organizzato una grande festa invitando decine e decine di amici da Torino per darci una mano a vendemmiare. Ma Filippo volle alzarsi lo stesso perché diceva di stare un pochino meglio anche se Pasqualina era preoccupata.
La sera era di nuovo piegato. Il giorno dopo però voleva andare di nuovo nella vigna a raccogliere la sua uva, perché se c'è chi in campo ci vuole scendere, c'è anche chi sul campo ci vuole crepare, come fanno di solito i guerrieri. Così la polmonite si incazzò, perché non poteva permettere che un vecchio, soltanto un vecchio, potesse essere più forte di lei e pensò così di chiedere aiuto a una sua amica: la signora morte. Ma non era ancora ora e la morte tardava ad arrivare e Filippo non se ne voleva andare dalla vigna. Così la polmonite lo obbligò a vendemmiare in ginocchio.
Sì, proprio così, in ginocchio. Il vecchio non ce la faceva più a stare in piedi e, testone com'era, non voleva tornare in casa, ma voleva portare a termine il raccolto a qualunque costo. Così si spostava a fatica di un metro e vendemmiava, di un altro metro e continuava. Intanto cominciavano ad arrivare gli amici da Torino e poi dalle abitazioni circostanti per dargli una mano e con essi finalmente arrivò, anche se molto discretamente, la morte.

In un primo tempo lei si limitò a guardarlo, tra i filari delle viti e molto probabilmente lui non la vide, ma sicuramente sentì la sua presenza. Sentì che era arrivata e così si fece trasportare da due uomini fino a casa dove si sdraiò nel letto ad aspettarla. Una vecchia credenza racconta che la civetta va a posarsi e a cantare sul balcone o sul davanzale di una casa dove quella notte morirà qualcuno.
E' solo una credenza, ma quella notte io sentii, non è un espediente letterario e posso giurarlo sulla testa di chiunque, cantare la civetta. Allora non ero più un bambino e la cosa non mi spaventò, ma mi colpì profondamente.
Il giorno dopo Filippo era morto e la sua casa e quelle intorno e le vigne erano piene di gente e in due giorni finimmo la vendemmia. Si fece una grande festa per celebrare Filippo che era morto da guerriero testone in ginocchio davanti ai frutti del suo duro lavoro.
E anche se oggi le braccia che gettano i semi sono meccaniche e le botti di rovere vengono sempre più velocemente sostituite da quelle in vetroresina tutto questo mi serve a ricordare tutti i giorni, tutti i santi giorni, che il pane che mangio e il vino che bevo non sono solo delle cose che ho comprato in un negozio o peggio in un supermercato.

 
Mauro Villone
 

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