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Lasciatemi addormentare come Saffo

La mia è stata davvero una scelta” ha scritto in una lettera agli amici, quella del congedo. “Una scelta a lungo riflettuta, preparata, accompagnata negli ultimi tre mesi dalla stesura di un diario, impegno che ha dato luce a questi miei ultimi giorni”. Così ha deciso di andarsene la giornalista e scrittrice Roberta Tatafiore.
Un progetto, quello del suicidio, inseguito con gelida determinazione. Prima una “scelta di clandestinità”, vivere di nascosto dagli amici, dal lavoro, dai giornali ai quali collaborava. Tre mesi di silenzio, interrotto da frettolose telefonate che mai hanno tradito il suo disegno. Poi la scelta dell’albergo, vicino al suo appartamento. Un ultimo saluto alla casa, ai libri, alla gatta, agli oggetti amati. Le lettere di addio agli amici, missive piene di tenerezza e di sorriso, le ha spedite all’ultimo. Ha lasciato parole lievi: “L’ho scelto io, state sereni”.
Anche la sua morte, lucidamente inseguita, progettata e raccontata in un memoriale di una cinquantina di pagine, appare una costruzione letteraria, una sorta di “diario della clandestinità” in cui è dettagliatamente raccontato come ci si prepara a un suicidio inteso come possibilità di una esistenza piena.
In uno dei suoi ultimi articoli si era espressa con veemenza contro lo “statalismo chiesastico” esibito sul caso Englaro. “Ognuno di noi è padrone della propria vita”: forse Roberta Tatafiore ha voluto ricordarcelo. Con dolcezza e senza rancore.
 
Carlo Mariano Sartoris


Nell’estate del 2007 Roberta Tatafiore ha affidato al quotidiano “Il Foglio” il proprio pensiero su che cosa significasse l’aldilà. È uno scritto di rara suggestione che vi proponiamo in memoria della scrittrice scomparsa.

 
Mi immagino come una monade tecnologica racchiusa in una perfezione autosufficiente. La mia morte la immagino come un precipitare nel mondo delle “larve nere”. Per questo la temo e mi attrae.
 
Morte, inerzia di sonno
per te, silenzio di memoria, sempre:
tu non attingi rose
poetiche.
Dispitta e scura, vagherai nell’Ade,
svolacchierai tra larve
nere.
Ermete venne.
Io gli dissi: “Signore…
no, per la Dea beata,
io non ho gusto di grandezze:
vaghezza mi punge
di morire. Vedere
nella rugiada i fiori
di loto, lungo l’Acheronte!”
Saffo
 
(traduzione di Filippo Maria Pontani)

Succede talvolta di addormentarmi un nanosecondo dopo un sussulto del corpo, un contrarsi delle membra. Incontrollati. Faccio appena in tempo a percepirli che vengo ingoiata dal cedimento assoluto, dal salto nel buio. La mia morte - nella più rassicurante delle ipotesi - la immagino così, come un precipitare nel mondo delle “larve nere”. Per questo ho paura della morte. Di più: da questa paura mi sento al contempo minacciata e attratta. Cerco le “larve nere” nei romanzi e nella cronaca per impossessarmi dei racconti delle morti possibili, le invoco se sono disperata. Non mi rassicura la versione tramandata da Seneca a Totò che la morte ci rende uguali. Perché se è vero che ’A Livella parifica ciò che nella vita si dispiega come meravigliosa unicità e diversità di ciascuno, è altrettanto vero che ciascun morituro è dominato dal destino, dalla propria o dall’altrui volontà, per come passa nell’al di là. Ci sono modi terribili e altri meno terribili di morire.
Non provo, come la dolceridente Saffo (così la chiamava Alceo, conterraneo, poeta e amico), quella “vaghezza di morte” per inoltrarmi tra i fiori di loto che crescono lungo le rive dell’Acheronte prima che le sue acque azzurre si versino in quelle grigie e fumiganti dello Stige. La fondatrice del tìaso di Mitilene nell’isola di Lesbo, accolita rigorosamente femminile, era così libera e nobile da poter scolpire sia versi scuri da lanciare come minaccia all’amante traditrice sia versi chiari rivolti a se stessa, come a presagire un’immortalità garantita dal posto che sarebbe spettato ai propri versi nella memoria dei posteri.
L’immortalità di cui parla Saffo è scevra da professione di fede: la sua visione ridente dell’al di là, pur proiettata in un ignoto divenire, allude ancora agli scambi umani e alla gratitudine che proviamo verso coloro che, venuti e già andati, ci consegnano opere preziose: un libro dimenticato e ritrovato da cui sempre imparare, un canone estetico da perseguire, un pensiero che diventa mosaico della propria visione filosofica e morale. Ne parla Elias Canetti (“Masse e Potere”, Adelphi 1981) a proposito del Sopravvissuto, ovvero colui che momentaneamente, in maniera accidentale o intenzionale, riesce a sottrarsi al destino di massa del morire. Per quanto mi riguarda, pratico la gratitudine per chi mi ha preceduto lasciandomi qualcosa di significativo, ed è gratitudine per la vita. Vivo dunque con le sensazioni e i pensieri prevalentemente indirizzati al mondo terreno immergendomi nelle sue contraddizioni. Pertanto sono dubbiosa su tutto ciò che non sia afferrabile dai cinque sensi attraverso il meccanismo cognitivo che li comanda. Pur tuttavia ho i miei bravi cedimenti nei confronti dell’al di là come promessa speranza consolazione di vita ultraterrena perché intrattengo rapporti con le persone care che sono mancate, soprattutto con quelle che mi hanno dato la vita.
Morì prima mio padre, in modo violento, quando io ero molto giovane e lui un signore vigoroso di 52 anni. Mia madre si è consunta di vecchiaia quando ero io che di anni ne avevo 52. La sua morte mi ha straziato e mi strazia ancora. Mi sono dedicata ai suoi tempi ultimi, quelli tosti, quando la sofferenza fisica e psichica si fissa nello sguardo in cerca di conforto. Ho fatto del mio meglio per starle vicino ma mi resta il dubbio amaro di non aver fatto abbastanza. Seppellita anche mia madre nella tomba di famiglia, devo dire che quella tomba, che già disertavo, raramente ho frequentato. Cosicché alcune lettere dell’iscrizione erano cadute e si era tutta ingrigita per via degli sterpi infiltrati nelle fessure delle pietre e delle acque stagnanti nei vasi. Finché di recente ho potuto comprare una casa che ho ristrutturato con cura e a quel punto mi sono detta che dovevo assolutamente dedicare altrettanta cura per sistemare la loro, di casa. L’ho fatta rimettere a posto immaginando che sarebbero stati contenti. Io lo sono certamente: a ogni visita mi compiaccio del marmo lucidato, delle fioriere ricolme se non da me per mano del giardiniere incaricato, del piccolo sgabello di ferro battuto che ho fatto mettere per sedere e fare due chiacchiere con entrambi. Sono due chiacchiere tra me e me, in realtà, visto che i morti non rispondono.
O meglio: parlano simbolicamente ai vivi per il tramite di stregoni, sciamani, sacerdoti, mediatori che hanno accesso all’influenza del sacro e del potere sull’esistenza umana perché possiedono le chiavi della trascendenza. Quest’ultima la immagino come un anello di carne disincarnata, luogo/non-luogo che precede la vita, accompagna la vita e va oltre la vita. Su di essa si concentra la proiezione mitopoietica dell’umana intelligenza per tentare di dominare il terrore esistenziale della morte che non può essere guardato se non attraverso i riti e i miti costruiti per assicurarsi l’immortalità: acconciando il cadavere per il dopo, preparando la propria anima per il dopo, ponendo gli dei o Dio in cima alla piramide del sacro ad amministrare le religioni, che vuol dire amministrare i rapporti che gli umani intrattengono con i comandamenti, le indicazioni, le visioni, in vista del passaggio ultraterreno. Nel delizioso dialogo tra la Cultura e la Morte, Ruggero Guarini (“Il pensiero quotidiano”, Rizzoli 1993) fa dire a quest’ultima “…se i mortali non mi temessero come la morte, non avrebbero inventato nessun culto o cultura della morte, ovvero nessun culto e nessuna cultura giacché tutti i culti e le culture del mondo nacquero e nascono dal bisogno di tenermi a bada con vane ma vaghe attenzioni e moine”. È così che Morte, Sacro, Potere fanno parte della stessa filiera, tra loro intrecciati. Di nuovo Elias Canetti: “La morte è la moneta del potere”.
A riaccumulare moneta dopo le disavventure della guerra erano impegnati i miei genitori al tempo in cui ero bambina. Poiché non avevano ancora conquistato il traguardo della villeggiatura un mese al mare e uno in montagna, la famiglia era obbligata a passare luglio e agosto a Roma. Papà lavorava, mamma era felice con lui mentre le mie sorelle adolescenti erano contente di inforcare le biciclette, finalmente libere dalla scuola, e andarsene in giro tutto il giorno. Io, invece, smaniavo il momento in cui sarei stata mandata a Catanzaro dalle zie materne. Erano quattro: due sposate con figli e due zitelle che abitavano assieme, l’una sarta e l’altra maestra. Avevo una passione per zia Maria, la maestra, che era anche la mia madrina di battesimo: piccola e secca, svelta come un fulmine, con certi capelli corti sfumati alti dal barbiere così che da dietro, se non avesse avuto le gonne, la scambiavi per un maschio. Da lei e dalla zia sarta c’era l’usanza, nel tardo pomeriggio, di riunirsi nel laboratorio di sartoria dopo che le discepole (le chiamavano proprio così!) lo avevano liberato da fili, spilli e stoffe sparsi ovunque. Vi si recitava il rosario e poi si celebrava un omaggio alla Madonna, con passaggio di mano in mano di certe figurine in pergamena, colorate all’acquerello. Venivano scambiate, baciate e nominate una per una: turris eburnea ora pro nobis, virgo santissima ora pro nobis, virgo veneranda ora pro nobis, eccetera. Per la cerimonia arrivavano puntualmente le zie sposate e talvolta anche le discepole. A me sembrava un evento magico visto che nella mia famiglia di religione se ne masticava poca.
Dopo le preghiere, le chiacchiere con la granita di limone in mano. La conversazione piegava assai spesso sul “cui muriu?” che voleva dire passare in rassegna i dritti e i rovesci dei più recenti trapassati a miglior vita e dei loro parenti e amici inframmezzando compunzione e dissacrazione. Una sera che tale rassegna era stata assai succosa, zia Maria la concluse con un motto di spirito: “mo vi ca ’a pigghiamo puru nui cincu a viatica…”. Tradotto liberamente: “Guardate che prima o poi anche noi cinque (compresa mia madre, evidentemente) imboccheremo la strada per l’al di là”. E ci fu una risata fragorosa che inserì la battuta nel lessico familiare materno. Poiché lo spirito di tenebra calabrese fa parte del mio stesso spirito, quando mia mamma era prossima al traguardo finale e la vedevo particolarmente abbattuta ma cosciente, scherzavo: “Adesso tirati su, non fare storie, che non è ancora arrivato il momento della viatica”. E le strappavo sempre il sorriso.
La prima ad andarsene è stata zia Maria. Oramai ero diventata grande, vivevo da sola, lavoravo. Mia madre mi avvertì che per zia si contavano le ore. Presi il primo treno, andata e ritorno in due giorni. Lei giaceva, piccola e gonfia. Non mi riconobbe, ma io riconobbi le immaginette del dopo rosario che le avevano messo in mano. Nel viaggio di ritorno piangevo e mi consolavo pensando a tutte quelle signore, belle nei loro mantelli celesti, in fermento per accogliere la mia zia preferita. Per il suo arrivo avrebbero preparato la granita di limone e recitato il rosario tutte insieme.
Dunque, morirò come succede a tutti. E dopo il salto nel buio entrerò nel cerchio di carne disincarnata situato nel cielo stellato che, prima, era sopra di me. Dopo, ne farò parte.
Come il pilota di una navicella spaziale dimenticato in una qualche traiettoria ellissoide nella stratosfera, sono una monade vagante senza tempo e senza meta. Un po’ come Paolo e Francesca nell’inferno dantesco. Ma a differenza di loro sono una invece di due e non provo rimpianti e rimorsi per ciò che ho fatto, malfatto o benfatto, nella vita terrena. Mi immagino come una monade tecnologica racchiusa in una perfezione autosufficiente. Non penso perché non ho il cervello, non vedo perché non ho gli occhi, non sento né caldo né freddo, né fame né sonno. Eppure: malgrado non pensi, sono. Sono immortale. Ma come esistere nell’immortalità ci metto un po’ per capirlo.
A un certo punto del volo, proprio quando senza coscienza sono diventata un tutt’uno con il ronzio stellare e con le stelle medesime, mi accendo di led che mi solleticano delicatamente. Un’altra dimensione mentale si impossessa di me e grazie a essa percepisco una solitudine appagante, come se seta e velluto mi avvolgessero il cuore preservandolo da qualsiasi urto. Così entro in relazione telepatica con lo sciame delle monadi che mi precedono e mi seguono. Comunichiamo attraverso i bip luminosi emessi dal software incorporato nel noi-macchine. È una comunicazione tra solitari che null’altro possono scambiarsi se non quell’andare insieme in accordo perpetuo.
La nuova dimensione mentale non mi impedisce i ricordi di quel tumulto che provavo sulla terra nel vivere quella specie di arena sociale che è la vita minacciata dalla morte. Così comprendo come mai prima che le passioni spente, la mancanza dei lutti e delle visioni obbligate del brutto e del male, l’impossibilità di subire inganni e di fabbricare auto inganni, mi riservano una pace mai conosciuta.
E poi: i led segnalano che nel firmamento in cui svolacchio non ci sono larve nere bensì praterie celesti punteggiate di fiori di loto.
Roberta Tatafiore

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