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Una Lancia spezzata e il suo funerale

Vi è stato un tempo in cui belle macchine costruite a Torino erano sinonimo di classe, di eleganza e di sportività, un tempo che sembra remoto e destinato a uno stolto, ingrato tramonto. Era il 26 novembre del 1906 quando, per tenacia di Vincenzo Lancia, nasceva l’omonima azienda automobilistica. Agli inizi di quel secolo tutta la città era un fermento di officine meccaniche: epoca di pionieri torinesi sedotti dal motore, lungimiranti precursori del più bel giocattolo inventato dall’uomo, quando a oriente era il nulla. Quelle Lancia dalle linee eleganti e dai motori potenti erano destinate a sfidare il mondo lasciandoci una eredità preziosa da gestire. Avrebbero vinto spesso e impersonato un prestigioso esempio della creatività tecnica e lavorativa tipica di questa regione al nord della penisola. Il tempo che doveva passare è passato e il marchio Lancia, poi assorbito dal gruppo Fiat, ha accompagnato le vicende storiche e industriali del nostro Paese continuando a regalare epiche imprese sportive e macchine che hanno scritto la storia dell’automobile.
Oggi il panorama si è fatto sinistro. Scartabellando tra i piani di rilancio del nuovo marchio italo-americano FCA, emerge che lo scudo Lancia sarà abbandonato e destinato a svanire. Sono le leggi di una imprenditoria multinazionale che, in un mondo globalizzato anche nelle bielle e nei pistoni, nel nome del profitto sacrifica ogni altro valore senza lasciare spazio al sentimentalismo. Non voglio entrare nel merito di questa metodica fatta di numeri e di capitali; vorrei invece cercare di intrufolarmi tra le pieghe di determinate scelte, spostando lo sguardo su scenari neppure troppo ipotetici e riesumando il valore aggiunto e dimenticato che alcuni oggetti hanno e altri non avranno mai.
Per prima cosa sarà bene stabilire che viviamo in un tempo dove parlare di crisi dell’auto è una vera sciocchezza, ma a ridere sono altri costruttori. È una verità oggettiva sulla quale riflettere anziché perdersi in lagnanze e in pretesti.
I concessionari sono colonizzati da stemmi esotici dagli occhi a mandorla: vendono macchine oneste, ben fatte, che costano il giusto e camminano bene; ma continuo a guardarle come oggetti senz’anima che nulla sanno della Targa Florio, della Mille Miglia, di Montecarlo, di Ascari, di Villoresi, di Munari. Di vetture se ne vendono tante, le nostre non più: è concorrenza, ma si poteva evitare? Constatare che, in un contesto globale, noi che abbiamo insegnato al mondo a far le macchine siamo rimasti incapaci di rivalutare le eccellenze di un passato ancora recente suscita amarezza e sollecita domande. Non esistevano altre strade? Siamo artefici delle nostre sfortune? Dove abbiamo sbagliato? Risposte non ho, o forse non le voglio dire. Di sicuro tra le poltrone di Palazzo non abbiamo più una voce forte che sappia fare il bene del Paese. Italiani disuniti e decadenti, attendiamo attoniti che qualcosa si muova da sé.
Nel frattempo, dai musei e dalle aste dei collezionisti le Lambda, le Aprilia, le Aurelia, le Flavia e le Fulvia, le Stratos e le Delta si ribellano, ferite e offese nella loro insuperabile dignità. Forse siamo noi, nuovi italici, a non essere degni di loro, succubi uomini dalla memoria corta, bravi a rompere tutto e incapaci di difendere antiche e più recenti bellezze. Nei capannoni vuoti, immagino i lamenti dei nostri padri e i fantasmi tristi di antichi motori: mentre i troppi gloriosi marchi già morti e sepolti aspettano il funerale della Lancia, io provo vergogna.
Il signor Marchionne è un imprenditore e non ha spazio per il sentimento, ma la lungimiranza alla lunga paga. In qualche angolo della creatività si riesce sempre a scovare un’altra strada: se così fosse stato a suo tempo, forse saremmo noi italiani a vendere Fiat, Lancia e Alfa Romeo in tutto il mondo, oriente compreso, anziché celebrare esequie di nobili decaduti e spenti. Nella mia testa c’è un quadro astratto che mai sarà. Se l’industria, il governo, i sindacati e i cittadini tutti andassero a ripescare un po’ di orgoglio nazionale in quella vasca del tempo che fu, quando una Italia giovane e operosa non faceva sgambetti a se stessa, lo spazio di un nuovo Risorgimento sarebbe assai più ampio. Ma che l’Italia sia solita svettare e poi lasciarsi colonizzare in tutti i sensi è storia millenaria. Immagino le mosse per invertire la tendenza: unità nazionale, controllo dell’economia, onestà, senso dello Stato. Fantasie che rimarranno tali. Triste pensare che, a Torino, della Lancia presto resteranno un club, una via e un grattacielo da cui togliere la scritta in blu.
 
Carlo Mariano Sartoris


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