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Guardare
la sofferenza degli altri

Luisa S. (Ferrara) mi scrive di ritorno da New York: "La prima cosa che ho fatto è stata naturalmente la visita a Ground Zero. Non le descrivo le mie impressioni perché credo che possano essere comuni a tutti e me le aspettavo. Voglio invece sottoporre al suo giudizio una cosa che mi ha suscitato parecchia perplessità. Mi riferisco al fatto che tutt'attorno al buco lasciato dal crollo delle Torri gemelle è pieno di bancarelle che vendono le foto del disastro. A parte che non ho capito perché i venditori sono tutti cinesi, mi chiedo quale interesse ci può essere a portare a casa come souvenir la fotografia di un disastro che ci hanno fatto vedere fin troppo in Tv e sui giornali e che forse bisognerebbe solo cercare di dimenticare. Non sarà la solita spettacolarizzazione del disastro che abbiamo visto e vediamo in tanti film e che trasforma i disastri in qualcosa da ammirare invece che da esecrare?".

La risposta alla domanda della Signora Luisa è abbastanza semplice, ma le cose che dice si prestano ad una riflessione che può essere utile. In effetti è vero:i disastri di grandi proporzioni tendono a diventare i simboli dell'epoca in cui avvengono proprio attraverso le immagini che ne fanno risaltare alcune caratteristiche e ne nascondono altre. Le immagini del disastro delle Torri gemelle che i turisti portano a casa mostrano l'impatto degli aerei e il loro effetto, o coloro che si sono buttati nel vuoto (a proposito, queste immagini sono state proibite ai mass media americani e si sono invece viste in Europa, come denuncia Susan Sontag nel suo ultimo libro di prossima uscita anche in Italia: "Guardando la sofferenza degli altri", Mondadori).

Queste foto mostrando ciò che mostrano occultano contemporaneamente ciò che non può essere fotografato: lo strazio e l'angoscia dei passeggeri degli aerei e di coloro che lavoravano nelle Torri al momento dell'impatto (e che si sono visti arrivare la morte addosso senza poter fare nulla o che si sono buttati nel vuoto in un estremo impulso di fuga).

Questo processo di "riduzione" del disastro a fotografia o a immagine simbolo raggiunge ovviamente il massimo nella nostra epoca grazie alla possibilità mai prima raggiunta di riprodurre fotograficamente o televisivamente gli eventi del mondo. Anche il diluvio universale è, ad esempio, diventato un simbolo attraverso le "rappresentazioni" che l'Umanità se ne è fatta attraverso il racconto biblico; ma le "immagini" del diluvio universale, non essendo riproduzioni realistiche ma solo "rappresentazioni" mentali, possono nascondere meno efficacemente lo strazio di coloro che non sono stati accolti nell'Arca di Noè e la gratitudine che hanno certo rivolto a Dio tutte le creature che Egli ha voluto salvare accogliendole nell'Arca.

Tornando alla domanda della Signora Luisa, si può allora dire che, sì, è giustificato il desiderio di portarsi a casa una immagine del disastro dell'11 settembre, perché essa è un simbolo dell'epoca in cui viviamo. Bisognerebbe tuttavia tener conto del fatto che lo straordinario potere della nostra epoca di "riprodurre" i fatti "fotografandoli" impoverisce i simboli che ne distilla, proprio perché si tende inevitabilmente a dimenticare, abbagliati dalla potenza riproduttiva delle immagini, che esse riproducono dell'evento riprodotto solo ciò che può esser riprodotto: l'esteriorità percepibile di ciò che è avvenuto e non l'interiorità di chi lo ha vissuto! Significa che è vero, e resterà sempre vero, che le emozioni di chi ha vissuto un evento catastrofico sono qualcosa di "unico e irripetibile" che non può essere "riprodotto" e di conseguenza non può esser "rivissuto".

Qualcosa che non può esser riprodotto oggi con le moderne tecnologie di produzione delle immagini così come non poteva essere riprodotto nel passato con l'immaginazione e la rappresentazione mentale.

La differenza è che da una parte, quando l'Umanità si rappresentava il Diluvio universale poteva farlo solo immaginandoselo e questo le dava l'immediata consapevolezza che ci doveva esser uno "scarto" tra come era avvenuto per chi l'aveva direttamente vissuto e come se lo rappresentava chi lo raccontava e chi se lo ricordava, dall'altra, oggi che si fotografa o si filma il crollo delle Torri Gemelle, l'uomo crede di assistervi guardando le foto o i filmati: potenza del realismo riproduttivo!

Si comprano le foto del disastro così si può avere guardandole l'illusione di "esserci stati" e di capire quanto è accaduto. È una illusione giustificabile come tutte le illusioni (e come tutti simboli che danno l'illusione della realtà) finché i simboli e le illusioni (che sono parte importante dell'Umanità) non bloccano la crescita dell'Umanità! E la crescita dell'Uomo si blocca quando i simboli cancellano le persone in carne ed ossa.

Nel disastro delle Torri Gemelle molte persone si sono trovate di fronte alla morte e ne hanno vissuto le emozioni, emozioni uniche, irripetibili, cioè non riproducibili né simbolizzabili.

Cercare di riprodurre queste emozioni con le foto del disastro significa cercare di minimizzarle cercando di percepire del disastro tutto tranne ciò che inquieta: l'inquietudine di fronte alla morte di coloro che vi sono morti!

L'Umanità che cessa di illudersi di fronte al disastro dell'11 settembre (e che perciò può trasformarlo in una occasione di crescita) è l'Umanità che smette di guardarne le foto e "pensa" a coloro che vi hanno incontrato la morte: senza esorcizzare l'inquietudine che provoca, ma imparando invece a convivervi, potendo così trasformarla in energia per ricordare ad uno ad uno (cioè con la loro irripetibile esperienza di morte) coloro che sono morti e far sì che mai nessuno muoia più così drammaticamente.
 
Francesco Campione

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