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I FUNERALI IMPOSSIBILI

Mi scrive un Operatore di Pompe Funebri del Meridione che ci tiene a restare anonimo: "Prima di organizzare funerali credevo che i morti fossero tutti uguali nel loro essere tutti 'privi di vita'. Ora, dopo vent'anni di onorato lavoro di 'becchino', so che sono uno diverso dall'altro.
Ci sono morti 'a termine' che tutti si aspettavano morissero, morti prematuri che non 'dovevano' morire, morti che sono una perdita per tutti e morti che passano inosservati....

E per ognuno ho imparato a predisporre un funerale diverso, cioè il più possibile adeguato al significato della sua morte. Solo una categoria di morti continua a mettermi in crisi come il primo giorno: i suicidi.
Non riesco a capire se chi si suicida è da compatire perché è talmente infelice da non sopportare la vita o se merita di morire perché rifiuta il bene prezioso della vita. E anche l'esperienza a volte conferma il proverbio per cui 'chi si uccide con le sue mani non ha nessuno che piange per lui', a volte mi fa incontrare genitori di ragazzi morti suicidi che a distanza di molti anni ancora piangono i figli sconsolatamente.
Per i primi sarebbe adatto un funerale che cominci e finisca subito, cioè un 'funerale quasi da non fare', per i secondi ci vorrebbe un funerale che 'non finisca mai'.
Ma in entrambi i casi si tratta di 'funerali impossibili' per un concreto operatore funerario. E infatti i parenti dei suicidi restano sempre insoddisfatti del funerale che gli si organizza. Cosa ne pensa? C'è rimedio, o è inevitabile che sia così?".
Il funerale può essere considerato una delle tappe del processo di elaborazione del lutto, cioè di quel processo psicologico soggettivo e intersoggettivo o sociale che ha come scopo di far sì che la morte venga "superata" dai vivi.
Quando qualcuno muore si innesca per un certo periodo una specie di lotta tra la vita e la morte, lotta che si può concludere o con la vittoria della vita o con la vittoria della morte.
La vita vince se chi resta riesce a trasformare il morto in qualcosa di vivo (in ciò che lascia, come parte di sé interiore, come ricordo, o in ciò che vivrà in un'altra vita); la morte vince se prevale il desiderio di morire con chi se ne è andato (in tutte le sue forme, dal suicidio all'impossibilità di vivere perché non si riesce più a vivere senza coloro che sono morti). Il funerale religioso, ad esempio, aiuta chi ha una fede religiosa a trasformare il morto in un vivente dell'aldilà.

Diversamente, certi funerali laici aiutano a trasformare il morto nei suoi "monumenti", nella sua influenza nella vita di chi resta o nel ricordo che collega i viventi a coloro che non ci sono più, in attesa che poi facciano lo stesso coloro che non ci sono ancora.
La premessa di questo tentativo di trasformare il morto in qualcosa di vivo che aiuti a vivere chi resta è però che chi muore muoia contrariamente alla sua volontà. Se, al contrario, è morto suicida, chi muore ci lascia il messaggio che non vuole "rivivere" in una della forme rese possibili dal processo di elaborazione del lutto e del funerale.
Il problema che si pone è allora il seguente: bisogna rispettare la volontà del suicida e lasciarlo morire come ha espressamente detto suicidandosi? Se si risponde affermativamente a questa domanda, il lutto per chi si suicida non solo è impossibile, ma è anche "ingiusto" perché tradisce la volontà di chi muore.
Se si risponde negativamente il lutto per chi si suicida diventa possibile alla stregua di qualunque altro tipo di morte, ma somiglierà ad un amore non corrisposto che ama nonostante tutto: facciamo vivere attraverso il lutto chi si uccide nonostante il fatto che lui voleva morire, ma per averne il diritto dobbiamo in qualche modo far prevalere il nostro desiderio che continui a vivere sul suo desiderio di morire.

La sua giusta osservazione che il funerale del suicida lascia sempre insoddisfatti trova una spiegazione nella tendenza a contrapporre ideologicamente queste due possibili risposte: chi rispetta la volontà del suicida come fosse sovrana tende a non ammettere la legittimità del lavoro del lutto perché esso ha come esito il contrario (la vita) di ciò a cui il suicidio tende (la morte); chi non rispetta la volontà del suicida tende ad attribuire al lavoro del lutto, cioè allo sforzo di chi resta per trasformare la morte in qualche forma di vita, maggiore valore della volontà individuale, affermando così il principio che la vita non è un quid a disposizione di ciascun vivente bensì qualcosa a cui ciascun vivente compartecipa finché è vivo, e che dopo riguarda solo chi resta (in vita).
Si esce da questo dilemma se si ha il coraggio di ammettere che il lutto (e quindi anche il funerale) riguarda solo coloro che restano, dato che il morto, essendo morto, non c'è più e quindi niente più lo riguarda.
In questo senso è vero che i morti sono tutti diversi, ma, come ha detto anche Lei, sono diversi per gli altri che restano. Anche quando muore un bambino, ad esempio, la sua morte è prematura ma solo per chi resta, poiché il bambino non c'è più; così come un morto è importante solo per chi resta, se a loro piacimento i superstiti possono ricordarselo o dimenticarlo.

Significa che il morto, in qualunque modo sia morto, dal lutto, dai rituali, dal funerale, non guadagna niente, poiché anche quando viene trasformato in qualcosa di vivente questo qualcosa non lo riguarda: le sue opere sono a disposizione di chi resta, la sua influenza nella vita di chi resta riguarda costoro, il suo ricordo è esperienza d'altri.
In tal senso, se si guardano le cose dal punto di vista di chi muore, che si rispetti la sua volontà o che non la si rispetti è indifferente. Fa differenza invece per i vivi, per chi resta.
Perché allora continuiamo, sia nel caso da Lei sollevato della morte per suicidio che negli altri casi, a porci il problema della volontà di chi muore e di rispettarla? Forse perché ci rendiamo conto, sotto sotto, che la cosa più importante quando qualcuno muore non è che noi che restiamo continuiamo nonostante la perdita a vivere, ma che la vera tragedia, l'irreparabile, è che qualcuno è morto e non c'è lutto o funerale che potrà mai sanare l'ingiustizia che ha subito morendo.
Ci sentiamo in colpa d'esser vivi di fronte a chi è morto, in qualunque modo è morto, e col nostro lutto e i nostri funerali vorremmo farci perdonare, perché anche noi soffriamo per la perdita subita o perché rispettiamo la volontà dei defunti.

In conclusione, il caso del suicida che Lei solleva, è un caso estremo, che, come tutti i casi estremi, ci aiuta a capire una situazione che riguarda ogni morte: il funerale e il lutto ci lasceranno giustamente sempre insoddisfatti se amiamo coloro che sono morti, perché non c'è funerale che sia abbastanza corto o abbastanza lungo per sanare l'ingiustizia subita da chi voleva vivere ed è morto o da chi voleva morire e non potrà morire finché qualcuno che l'ama gli è sopravvissuto.
Chi è morto non sarà mai abbastanza morto finché qualcuno gli sopravvivrà e chi è vivo non sarà mai abbastanza vivo finché qualcuno gli morrà.
Il lutto e i funerali che ne fanno parte non possono essere soddisfacenti: basta che esprimano questa compresenza nell'uomo dell'esser vivi e dell'esser morti.

 
Francesco Campione
 

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