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"ERO FIERO DEL MIO PICCOLO FERETRO"

Charles Bukowski, narratore e poeta americano, (Andernach1920 - Los Angeles 1994), scriveva come Picasso, col pennello in mano. A periodi, a donne. A colori pazzi, estremi. E angoli e spigoli. Di tutta una vita e per tutta una vita. Descrizioni forti, senza limature, censure, a tutto tondo. Niente vie di mezzo se non la verità all'eccesso, assoluta, esagerata. Verità minimalista, cruda, reale, unicamente vera e non camuffata. La realtà ordinaria scritta straordinaria in righe compulsive e convulsive. L'intera sua vita è una autobiografia esemplare, con intermezzi fantastici. Per eccezionalità letteraria e per invenzione. Il tema ricorrente è raccontare se stesso. Con ironia, verità, realtà, stile, niente paura, tanto alcool.

Nonostante la vita intensa di strada, rinunce, fame, stenti, alcolici e scarsa cura di sé, aveva sempre goduto di ottima salute. Poi, un giorno del 1970, la paura della morte. Si sente male, torna a casa dall'ufficio. Ulcera sanguinante. Sangue. Pronto soccorso all'ospedale di Los Angeles, dove viene dimenticato, lasciato sulla barella, quasi a morire dissanguato.

La sola cura è smettere di bere. E dopo un breve periodo di moderazione alcolica, riprende a bere, come prima. Anche di più. Aver rischiato di morire, gli ricorda l'esigenza di scrivere. La morte, così vicina, lo rende immune alla paura.

Sulla morte scherza, della morte ride. La prende in giro in racconti e poesie, non la teme, la ricicla come elemento comico, assurdo, sorprendente, alle volte disarmante, altre sconvolgente.

Quando poi gli sta accanto e la vede come prossimo capitolo di quell'autobiografia esemplare che è la sua vita di storie e poesia (nel 1991 scopre di essere malato già da tempo di leucemia) la descrive così: "Aveva un vestito tanto attillato che quasi spaccava le cuciture. Troppe cioccolate al malto. E le scarpe avevano tacchi tanto alti che sembravano trampoli. Attraversò la stanza ondeggiando come uno storpio ubriaco. Un'abbondanza di carne che dava le vertigini."
È Lady Death (Signora Morte), donna bellissima, volitiva, dalla voce sexy, che lo interpella per trovare una persona. Il romanzo è Pulp, storia di un detective sgangherato e ubriacone, Nick Belane, che si divide tra il lavoro e le scommesse ai cavalli, in un via vai di clienti incredibili e indagini farlocche: una aliena che controlla la mente di Hal Grovers, impresario delle Pompe Funebri Porto d'Argento; una moglie infedele; un Passero Rosso a quanto pare introvabile e uno scrittore francese, Cèline, stranamente ancora in vita che Lady Death vuole morto.

Questo romanzo, pervaso da una atmosfera insolita, grintosa, divertente, una vera sfida alla morte, è stato scritto tra una convalescenza e l'altra e cicli debilitanti di chemioterapia, tra il 1991 e il 1993. È il racconto della non paura, dell'attesa di una morte vicina, annunciata. Giorni strappati uno ad uno ad una malattia terminale che accetta con la solita calma descrittiva e pungente di sempre.

Nascosta fra le righe troviamo l'attesa, ricordi, personaggi già conosciuti, realtà vissute ed una fine insolita. C'è autocelebrazione burlona, celebrazione di grandi nomi della letteratura, celebrazione del sé e di una morte che arriva inaspettata ma attesa, inattesa e incredibile. All'ultimo appuntamento, quello con il Passero Rosso, Nick Belane viene ferito a morte. A terra, sanguinante, in fin di vita, sente una musica meravigliosa e, improvvisamente, appare il Passero Rosso. Compare anche Lady Death a slegare gli intrecci di quelle indagini assurde, a svelare i piccoli misteri, a spiegare la vita.

Belane-Bukowski resta solo, sbigottito e incredulo, a morire di fronte al Passero Rosso. "Questo non è il modo in cui succede, pensai di nuovo. Il becco si spalancò, la testa del Passero si avvicinò e il giallo sfavillante e accecante mi fu sopra e mi avvolse".

Nella letteratura bukowskiana vi sono vari sberleffi alla morte, omaggi, pensieri teneri e arrendevoli, soprattutto nella poesia. Ma nei racconti, la morte si presta a varie interpretazioni; in questo particolare caso, ma ve ne sono molti altri, è metafora pungente, significativa, grottesca ma divertente.

È un racconto divertente, Un matrimonio di rito Zen, che troviamo nella raccolta di racconti Storie di ordinaria follia. Charles Bukowski è Charles Bukowski, compare d'anello ad un matrimonio di amici, Roy e Hollis, che da tre anni convivono e hanno deciso di sposarsi con un rito zen, appunto. Nella villetta con giardino pieno di piante esotiche dove si terrà il rito, cominciano le presentazioni. Bukowski è già ubriaco, continua a bere e intrattiene le signore presenti con apprezzamenti pesanti. Tutti attendono il Maestro Zen. Quando arriva, comincia il rito. Candele accese, incenso che brucia, il fotografo che scatta foto e le magnifiche orecchie del maestro zen, sottili e trasparenti, che affascinano Bukowski al punto da volersene impossessare. Finita la cerimonia nunziale seguono baci alla sposa, congratulazioni e festeggiamenti. Dopo poco il maestro decide di andarsene. Bukowski lo segue, lo affronta e nel giardino lo minaccia: "O le orecchie, porco giuda, o il barracano". Gli si butta addosso cercando di colpirlo, ma dopo alcuni pugni andati a vuoto resta a terra accartocciato da un colpo di karate. Si riprende in tempo per continuare i festeggiamenti e soprattutto per bere ancora. Dopo aver malamente molestato la madre della sposa, consegna il suo personale dono agli sposi, l'unico regalo ricevuto. Le reazioni non sono delle migliori, la scelta del dono, alquanto originale.

"Il regalo era avvolto in 45 metri di carta stagnola. Roy non finiva più di scartare. Alla fine l'aprì. 'Tanti auguri!' gridai. Si fece silenzio nella sala. Tutti guardavano. Era un piccolo feretro intagliato a mano dai migliori artigiani spagnoli. Era perfino foderato di feltro rosso porpora. Era la copia esatta d'una vera cassa da morto, tranne solo che era stato eseguito con più amore. Roy mi diede un'occhiataccia, strappò via il cartellino con le istruzioni per mantener lucido il legno, lo ficcò dentro il feretro, ne richiuse il coperchio. C'era un gran silenzio. L'unico regalo, e non era gradito.
Ma ben presto si riebbero e ripresero a parlare di fregnacce. Io mi avvilii. Ero fiero del mio piccolo feretro. Ero stato ore e ore a scegliere un regalo. A momenti diventavo matto. Alla fine lo notai, su una scansia, tutto solo. Lo presi, lo rigirai, ci guardai dentro. Costava caro ma la lavorazione artigiana era perfetta. Il legno. Le cernierette. Tutto quanto".


Alle 11.55 di mercoledì 9 marzo 1994, Bukowski smette di scrivere, di bere e di recarsi all'ippodromo. Sulla sua la- pide, una iscrizione: Don't try. "Una volta qualcuno mi ha chiesto quale era la mia teoria sulla vita ed io ho detto, "non provarci". Funziona anche per lo scrivere. Io non ci provo, batto solo a macchina, e se aggiungo altro, ci sto provando".
 
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