- n. 6 - Giugno 2007
- Opinioni
Epitaffio di un'etica industriale
Noi, figli degli anni '50, ci domandiamo perché i ragazzi di oggi appaiano spersi e privi di valori. Non possiamo negare che in questa società "liquida" e inafferrabile, dove competizione ed emulazione sembrano essere rimasti gli ultimi miti, i giovani cerchino se stessi in giochi sempre più pericolosi.
Forse non abbiamo lasciato loro altro: sono depressi, così come depresso è il nostro sistema produttivo. Non vi sono sbocchi per i laureati, non vi è più etica nel mondo del lavoro. Noi, figli degli anni '50, eravamo ottimisti: davanti avevamo un'Italia da costruire e dietro solide fondamenta morali, storiche, cristiane. Basi che abbiamo distrutto, costumi radicati immolati a qualche strano demone che ci è penetrato dentro.
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L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro": echi di un 1947 che oggi sembra non essere mai esistito. Oggi il lavoro, per i nostri figli, è una incognita, ma soltanto per i nostri figli.
In un tempo neppure molto lontano, nelle fabbriche del nord operai e impiegati lavoravano, producevano per lo sviluppo. Erano tempi anche duri, tempi di scontri di classe; qualcuno protestava contro i padroni, giusto o sbagliato che fosse il motivo, si scioperava, si contrattava, ogni tanto qualcosa cambiava.
L'azienda aveva un nome, spesso quello del fondatore di cui si conosceva il volto, qualche ardito pioniere che, dalle ceneri di un Paese bombardato e diviso dalla guerra, aveva osato con arguzia e con tenacia. E gli era andata bene.
Vi era un rapporto umano tra titolare e dipendente; ci si conosceva, si litigava, spesso ci si stimava.
Sono piccoli frammenti di un mondo di ieri perduto per sempre. È un peccato, sentiamo che ci manca, ma in questa società "liquida" tutto è diventato inafferrabile, incomprensibile, lontano da noi. Oggi abbiamo tutto ciò che allora mancava, ma sono scomparsi l'etica, il rispetto, persino il confronto tra operaio e padrone. Chi è il padrone?
Sono rimaste solo paura e sconcerto; in troppe realtà sotto gli occhi di tutti non esistono più padrone né volto, non esiste più il vecchio nome dell'azienda che cambia o che di colpo scompare. Il lavoratore si alza al mattino, si reca sul posto, produce, ma non sa più per chi e nemmeno per cosa.
Giochi di capitali, speculazioni in borsa, aziende assorbite, aziende vendute a russi, americani, brasiliani; i gioielli di una era pionieristica fatta di sudore, di onore e di coraggio si perdono in un mercato globale senza più un volto umano.
L'operaio, l'impiegata, il capo reparto che da venti o trent'anni percorrono lo stesso tratto di strada per timbrare il cartellino, oggi si guardano attorno smarriti e attoniti. Succede sempre più spesso: la fabbrica si sposta in Bulgaria, in Cina, in Slovacchia, in Romania. È la legge del mercato: intanto la disoccupazione del popolo italiano cambia nome e si chiama mobilità, cassa integrazione, contratto a termine.
Le poche isole rimaste in un nord-ovest che fu mito ed esempio del miracolo italiano arrancano, spesso gestite da mani straniere alle quali, del miracolo italiano, non importa alcunché.
Riunione, valutazione, convocazione, offerta economica. Il misfatto si compie: un attimo e sei fuori, vecchio lavoratore che in fondo a quel lavoro e a quell'azienda hai dato tutta la tua vita, tante volte con orgoglio, con dedizione, con onestà, con fatica. Sei fuori anche tu, e non te lo aspettavi, dirigente soppiantato da giovani volti stranieri; strana gente con strane abitudini, che spesso siede sulla poltrona in pelle ed inizia a sperperare in macchine di lusso, consulenze, viaggi e quant'altro quello che avevi contribuito a risparmiare, vecchio italiano che andrai in pensione. Beato te?
Succedeva anche vent'anni fa di trovarsi a spasso. Ma era un'altra storia e perlomeno si sapeva a chi dover dire "
grazie". Adesso no, la società "liquida" non ha più nomi né motivi comprensibili, qualcosa decide, qualcosa di lontano e di indefinibile, qualcun altro è a spasso e nemmeno sa perché.
È un errore madornale. È la svendita di un'etica prima ancora che di un Paese che seppe essere una potenza industriale. Così si fece in Argentina e abbiamo visto come è andata a finire.
La politica balbetta, strombetta, dichiara, bisticcia, propone, ma l'Italia è sempre meno unita: dispersa nei suoi marchi prestigiosi, timorosa, smarrita.
Appare evidente, in questo contesto, la morte del rispetto dell'essere umano, umiliato nella sua essenza, ridotto a numero in esubero, estromesso da ogni decisione, silurato, licenziato da inafferrabili fantasmi senza volto né storia.
Chi decide è un ectoplasma diffuso, gonfio di azioni, di mattoni, di miliardi, padrone di tutto ciò che riesce a divorare: è il nuovo Dio, grasso e mai sazio, a cui volgere preghiere e improperi, è il denaro fine a se stesso, senza altro scopo che servire a produrne ancora, travasandolo con misteriose alchimie finanziarie.
Dietro di sé lascia un nulla che comunque funziona ancora, trascinato dalla forza delle inerzie positive alloggiate nelle macchinose risorse dell'uomo. Finiranno matematicamente, come finì l'ottimismo dei nostri anni '50.
È la fine della famiglia; quella vecchia, che trema e spera perché ha ancora il mutuo da pagare, e quella nuova che non verrà. Oggi ci si sposa poco ed è logico: lo strato più modesto della popolazione sarà anche più povero, ma non è mica fesso.
E poi ci sono i nostri figli, i figli di tutti, operai e dirigenti, figli viziati da tanti sacrifici, figli dispersi, laureati senza sbocco, giovani depressi in una società depressa che, lanciati a duecento all'ora, sbronzi sulle loro macchine potenti, sfidano il nostro passato per dimostrarci che non abbiamo lasciato loro il miraggio di un futuro in cui credere, stropicciando la magia del sogno.
È l'epitaffio dell'etica, defunta ovunque: dalla scuola alla politica, dall'educazione civica a quella religiosa, dal senso del dovere a quello del pudore. Chi riscriverà le regole? Chi inventerà un nuovo, più saggio miracolo italiano? Intanto si subisce come un popolo sconfitto da un guerra non sua, si spera, si gioca all'Enalotto e alla sera c'è "Affari tuoi" su Rai Uno. Non si può dire che a noi, piccoli italiani, manchino le alternative: uno su mille ce la farà.
Carlo Mariano Sartoris