Rotastyle

a Dublino, dal 21 al 23 giugno 2012

La dodicesima Convention Internazionale FIAT-IFTA/1

Abbiamo avuto l’opportunità di ritornare in Irlanda, Paese in cui da molti anni ormai non avevamo più messo piede. Nel frattempo molto è cambiato. Il conflitto interetnico dell’Ulster (Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito) è finalmente terminato senza modifiche territoriali, ma in un’atmosfera di civile collaborazione tra le comunità cattolica e protestante.
Tale realtà è stata sanzionata qualche giorno fa’ quando la Regina Elisabetta s’è recata per la prima volta da tempi immemorabili in visita ufficiale in Ulster dove ha incontrato Martin Mac Guinness, il vice primo ministro nonché numero due del Sinn Fein, il partito nazionalista cattolico che per trent’anni si è battuto contro i protestanti tramite l’IRA, il suo braccio armato, per il ricongiungimento dell’Irlanda del Nord all’Eire. Ciò non è accaduto, ma una intesa, nota come “Accordo del Venerdì Santo”, è stata raggiunta l’11 aprile 1998. Il cessate il fuoco definitivo fu sottoscritto dall’IRA nel 2005 ponendo la parola fine a quelle che in Irlanda vengono chiamate “The troubles” e che raggiungevano anche la Gran Bretagna. Nei primi anni ‘70 gli scontri a fuoco erano costanti. I morti di quella vera e propria guerra civile furono 3.500. Chi non ricorda la “domenica di sangue” del 30 gennaio 1972 quando a Londonderry, la seconda città dell’Ulster, si giunse all’apice dell’orrore? Gli attentati, non tutti mortali per fortuna, si contano a decine di migliaia. Noi stessi ne serbiamo un ricordo che risale ai primi anni ‘70. Ci trovavamo a Londra dove la passione per il rugby ci conduceva per andare a Twickenham (il tempio della palla ovale) in occasione del “torneo delle 5 nazioni” (adesso sono 6, da quando l’Italia è stata ammessa nell’élite continentale). Alloggiavamo al Grosvenor, un albergo di grande tradizione dove rivivevamo, come ogni volta che ci rechiamo a Londra, i fasti della “Old England”. Anche quella notte ci eravamo coricati soddisfatti dopo una serata passata al pub antistante l’hotel dove le pinte dell’eccellente ale locale si erano susseguite con costante regolarità. Alle tre del mattino il suono di un campanaccio a mano ci risvegliò. Una sorta di maggiordomo in divisa faceva il giro dei corridoi invitando, con grandissima flemma e con sobrio autocontrollo britannico, tutti gli ospiti a scendere nella hall a causa di un allarme bomba. Tutti giù quindi. Chi in mutande, chi in pigiama, chi, più organizzato degli altri, con pantaloni, scarpe slacciate ed una camicia. Vi erano anche donzelle in sottoveste la cui vista compensava la levataccia prematura. Pompieri, ambulanze, artificieri ed esperti antiterrorismo erano giunti nel frattempo adoperandosi per scongiurare ogni pericolo. Finalmente alle 5 del mattino ci è stato concesso di riguadagnare i nostri appartamenti. Non senza aver degustato qualche pinta supplementare visto che, con grandissima sagacia, la direzione dell’albergo aveva opportunamente deciso di rimettere in funzione gratuitamente le pompe di birra per garantire un minimo di conforto agli ospiti. Anche gli astemi giravano con la vecchia pinta panciuta e provvista di manico. La psicologia collettiva è strana. Basta che qualcosa sia regalata perché anche chi non ne ha bisogno ne si getti a capofitto alla conquista. Siamo certi che se un giorno venissero distribuite stampelle, chi si regge perfettamente sulle proprie gambe sarebbe visto rientrare felice a casa con un paio di tali supporti ortopedici! La storia non finisce qui. La sera dopo già dormivamo quando il suono di una esplosione ci svegliò. Corremmo di corsa alla finestra per vedere un denso fumo diffondersi proprio dal pub che frequentavamo abitualmente e dove avevamo, “more solito”, terminato trionfalmente la serata. Per una volta i terroristi non cercavano il morto (la bomba era esplosa dopo la chiusura del locale), ma una bella dimostrazione delle proprie capacità di colpire come e quando volevano in pieno centro della capitale. Questa è stata l’atmosfera generale in quelle contrade per molti anni. Oggi la pace regna (qualche imbecille c’è sempre) e le due Irlande convivono pacificamente. Al punto che le squadre delle diverse competizioni sportive sono formate da atleti delle due parti ad eccezione del football dove ancora esistono due nazionali: l’Ulster e l’Eire il cui allenatore è, come noto, Giovanni Trapattoni.
Sono anche scomparsi i controlli alla frontiera. L’abbiamo constatato de visu in trasferendoci da Dublino a Belfast per visitare rapidamente il museo del Titanic, da poco inaugurato, costruito nella capitale del Nord Irlanda. Un ricevimento ha ospitato tutti i membri di Fiat-Ifta nella sala da pranzo del municipio. Per tutta la giornata non ha smesso di piovere La campagna irlandese era più verde del solito. Di quel verde che si può trovare solo in una terra dove la pioggia fa parte integrante della vita quotidiana. Diciamo che c’era di che rallegrarsi vista la canicola che i colleghi ci descrivevano in Italia. Dublino rimane una città gradevole, anche se molto diversa da quella che era nei nostri ricordi. Gli anni della “Celtic Tiger”, per analogia con tigri asiatiche (grandi come Cina, India, Giappone e piccole come Malesia, Thailandia, Singapore), sono passati lasciando tracce evidenti soprattutto a livello urbanistico. Oggi, dopo la crisi del 2008, le cose sono nuovamente cambiate. C’è una forte disoccupazione e molte case sono vendute al ribasso (anche del 50%) da chi ha perso la capacità di pagare il mutuo. Gli irlandesi hanno anche ripreso le via del mare per andare a cercare di che vivere negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Si è ritornati all’emigrazione di massa che fa parte, in un certo modo, del patrimonio genetico di quel Paese. Solo che in questo caso non sono gli analfabeti a partire, ma giovani ben formati e di alto potenziale. Già la carestia della metà dell’800 aveva eliminato un quarto della popolazione irlandese. Otto milioni all’epoca. Molti erano morti di inedia. La “famine” era dovuta al fatto che un parassita aveva distrutto le patate, a quel tempo alimento principale dell’isola. Un paio di milioni si erano trasferiti nel nuovo mondo per ricominciare la propria vita creando negli Stati Uniti una comunità importantissima dalla quale sono poi usciti molti presidenti il più famoso dei quali è stato senza dubbio John Fitzgerald Kennedy. Nei racconti dei vecchi nuovayorchesi è ancora vivo il ricordo delle furibonde risse e delle scazzottate che connotavano i rapporti tra le diverse comunità di immigrati. Rapporti che talvolta si estendevano fino al matrimonio intercomunitario. Tra gli esempi eccellenti ricorderemo Robert De Niro il cui padre, pittore, era un cattolico di origine italo-irlandese e la madre, una presbiteriana di origine germano-olandese-francese. Altro caso esemplare è quello del grande Bruce Springsteen, “The Boss”, la cui madre era una Sorrentino di nome e di fatto essendo originaria proprio della bellissima Sorrento. Arriviamo così alla musica, aspetto dominante della vita di ogni irlandese che si rispetti come i cavalli, il rugby, la birra. Essa non è cambiata con l’arrivo dei tempi nuovi. 
I pub risuonano ancora delle belle ballate tradizionali eseguite con la strumentazione classica di quei complessi: il violino (“fiddle”), il banjo, il flauto irlandese (“thin whistle”), la chitarra e la concertina (una sorta di fisarmonica). I musicisti animano serate scatenate cui partecipa un pubblico eterogeneo: giovani e vecchi, donne e uomini, ricchi e poveri, tutti a celebrare, pinta di birra in mano, un rito quasi propiziatorio che si traduce in una vera e propria comunione. È bello vedere un popolo ancora rispettoso ed attaccato alle proprie tradizioni in un’epoca in cui l’omologazione regna sovrana e le caratteristiche individuali e collettive si diluiscono nella uniformità di cibo, di gusti, di comportamenti, di abiti e via di seguito. L’irlandese ha per certi aspetti il carattere fiero ed indomabile dei ponies selvaggi (nessuna allusione al romanzo di Michel Deon): generoso, ostinato e battagliero porta in sé il “fighting spirit”, lo spirito di combattimento della sua gente. Chi sa di rugby si guarda bene dal pensare che, in svantaggio a 5 minuti dalla fine, un irlandese abbia perso. Molte volte è accaduto proprio il contrario. Cosa che non sorprende chi conosce i diavoli verdi. Allora può liberarsi, gioioso e liberatorio, quello che è l’inno dei “ruggers”, “Molly Malone”, la storia di una giovane e mitica venditrice di cockles and mussels (telline e cozze) dal seno “cospicuo” e prematuramente scomparsa. Un monumento in suo onore campeggia, del resto, in Grafton Street (la via più frequentata della capitale) venerato da tutti i Dubliners. Che oggi sono anche fieri di un cono metallico altissimo considerato, con i suoi 121,2 metri, la più alta scultura al mondo. Un pinnacolo inaugurato nel 2003 per celebrare, in ritardo a causa di ostacoli amministrativi (tutto il mondo è paese!), l’entrata, nel 2000, nel nuovo millennio.
[continua...]
 
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