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Dire addio alla vita o cercare di non pensare alla morte?

Appena nati iniziamo a morire. Ma quando dovremmo cominciare a dire "addio" alla vita? "Da quando si diventa coscienti di dover morire" dicono alcuni. "Mai" rispondono altri. "Tenere viva la coscienza di dover morire e prepararsi a lasciare la vita è il modo migliore per collegare la vita individuale alle sue origini e alle sue finalità, cioè per darle un senso" sostengono i primi. "Se si vuole vivere una vita piena, alla morte non bisogna pensare e si deve vivere come se non si dovesse mai morire; altrimenti la vita sarebbe turbata dall'angoscia della fine anche nei suoi momenti migliori", replicano gli altri.
Dal confronto tra queste due alternative viene spontaneo domandarsi se la vita vale perché può avere un senso nonostante la morte, oppure vale solo finché permane nel suo ben-essere? In altre parole, il bene della vita può prescindere dal suo essere (cioè vale anche se deve finire e anche dopo che è finita) o dipende necessariamente nelle sue modalità?
Ragioniamo.
Se il valore della vita si fa derivare dai suoi momenti di perfezione (pienezza e senso di immortalità), essa sarà impiegata nello sforzo di far durare e di riprodurre questi momenti di perfezione, e si spererà di morire di colpo e senza accorgersene mentre si è impegnati in questo. Se il valore della vita si fa derivare dall'essere indispensabili per la vita di qualcun altro (cioè dall'aiutare altri a vivere spensieratamente i propri momenti di perfezione o a vivere, sopportandoli, i propri momenti di imperfezione), essa sarà impiegata nell'assumersi la responsabilità di vivere per gli altri, e si spererà di morire lasciandoli bene (cioè morire per loro così come per loro si è vissuti).
Nel primo caso, vivere sarà lo sforzo di fermare il tempo della morte che incombe e di rendere sempre più perfetta (godibile e immortale) la vita. Nel secondo caso, vivere sarà la pazienza di invecchiare cioè dicendo "addio" alla vita, il che equivale a un progressivo "disinteressarsi" dall'esistere.
La prima impostazione è evidentemente quella dominante oggi e ha come conseguenza l'individualismo dei momenti di perfezione (che si godono pienamente solo tra sé e sé) e il perfezionamento all'infinito dei mezzi per combattere la morte e per migliorare la vita. La seconda impostazione è quella che più manca oggi e che avrebbe come conseguenza la possibilità di vivere e di morire non solo per sé, ma anche per altri (la fine dell'individualismo e la possibilità della bontà), cioè la pazienza di invecchiare e di morire disinteressandosi sempre più della propria vita e interessandosi sempre più della vita di coloro che restano, vivendo come se la vita fosse un lungo "addio" non alla vita ma agli altri.
Chiediamoci ora se le due modalità brevemente delineate sono compatibili tra loro o se si escludono a vicenda come sembra dire, strutturandosi univocamente su una di esse, la nostra cultura. La domanda merita una riflessione a parte. Credo di poter dire che le due modalità sono compatibili, a patto di imparare a sentire la vita non come qualcosa di perfetto che è sempre minacciato dalla sua fine (il che è anche una vera contraddizione in termini!), bensì come qualcosa che partecipa all'infinito poiché sempre si rinnova grazie alla possibilità di amarla anche in altri. Al punto da considerare il bene "al di là dell'essere" allorché si constata che pur dovendo morire (cioè andare al di là dell'essere) resta il bene della vita degli altri.
Si potrebbe, così, concepire una educazione alla morte volta a combattere la morte individuale senza escludere l'amore per la vita altrui anche in propria assenza, cioè la bontà. Bisognerebbe non separare mai (come la mente umana fa in forma di difesa) ciò che in realtà non è separato: la perfezione della vita dalle minacce che il tempo porta con sé, imparando a vivere nella perfezione ciò che è eterno senza scambiarlo per immortale.
L'inquietudine per le minacce che il tempo scorrendo porta con sé non impedisce di godere la vita come perfetta (piena ed eterna) nei suoi momenti di perfezione, se è inquietudine più per altri che per sé! Per chi vive dicendo "addio" agli altri, infatti, i momenti di perfezione sono vivibili (cioè pieni ed eterni) nonostante l'inquietudine determinata dalla coscienza di morte, perché nell'addio agli altri la "passione" per ciò che loro perdono con la nostra morte prevale sulla "passione" (compassione) di ciò che noi perdiamo per il loro permanere in vita senza di noi.
Si potrebbe addirittura pensare che vivere e morire per altri è possibile solo come "bisogno di lusso" di chi sta vivendo una vita perfetta (piena ed eterna): altrimenti come si potrebbe disinteressarsi della propria vita se essa non fosse già perfetta, per sentire come unica "mancanza" che non è ancora perfetta la vita degli altri?
 
Francesco Campione

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