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Cronaca della morte di un grande uomo comune

Ebbene sì, è venuta la mia ora. Sono morto anch'io, uomo comune il cui nome non vi direbbe alcunché. Il "passaggio" non è stato un momento particolarmente doloroso e neppure deprimente. È stato un momento e basta: prima c'ero ancora, e dopo non più. Se proprio si vuol trovare da ridire, durante il tempo che ho vissuto ho atteso con disappunto questo inevitabile appuntamento pensandoci per tutta la vita, sperando di allontanarlo verso una remota vecchiaia. Ora che si è verificato mi sembra di aver perso tempo a preoccuparmi di un qualcosa che adesso c'è e che non è altro che un normalissimo niente. La vita, invece, quella sì che valeva la pena di essere vissuta: anche una come la mia, mediocre vita di un uomo occidentale, ma così densa di avvenimenti.
Sono stato un personaggio poco noto. Il mio funerale sta per iniziare, passerà quasi inosservato, qualcuno piangerà davvero e altri saranno un poco dispiaciuti, di certo la Marisa avrà gli occhi gonfi, ma purtroppo non potrà farsi vedere: già, la Marisa, forse il più bel fiore di quest'ultima parte della mia esistenza, il più fresco, il più segreto. È lei il mio piccolo scandalo, ma lo conoscono pochi amici e spero si facciano gli affari propri: non farebbe notizia e non aggiungerebbe granché alla storia pur movimentata della mia trapassata esistenza. Della mia buffa morte, almeno di quella, è stato scritto qualcosa sui giornali regionali; e anche a "Telenove novelle news" delle 13, il mio decesso è stato riportato. È stato un piccolo momento di vanità e mi ha fatto quasi piacere sentire reso pubblico il mio nome. Beninteso, niente a che vedere con certe storie di personaggi da carta patinata, paparazzi, vacanze a Cortina, dibattiti in tivù, donne bellissime e serate al casinò; né strascichi e pettegolezzi sulla mia ridicola eredità. Un particolare che la dice lunga. La mia è stata una vita... diciamo di serie minore, una vita sconosciuta come lo sono tante, quasi tutte, con le loro luci e le abbondanti ombre, terminata quasi in sordina. Ma adesso che la ricordo, già mi manca: era la mia, unica e importante. Se la riesamino, non è poi stata male, o forse sì?
Da ragazzino mi sono divertito moltissimo ed ho avuto bravi genitori: all'oratorio ero il re del football, avrei potuto diventare un giocatore di talento, ma al momento delle selezioni per entrare nel vivaio del Torino mi ruppi un alluce e non mi  presentai al campo. Peccato, il mio carissimo amico Piero era meno dotato di me, ma poiché io non c'ero, fu ingaggiato lui. È riuscito a farsi anche sei stagioni in serie B, andando a giocare nell'Atalanta e nel Pisa.
A scuola me la cavavo benino, nel disegno non mi batteva nessuno. Sono diventato ingegnere meccanico e appena fuori dall'università io e il mio compagno Sergio abbiamo immediatamente avuto due opportunità. Ho accettato io per primo, scegliendo un'azienda famosa in tutto il mondo. Dopo dodici anni di fedele sevizio, poco prima di diventare direttore, le cose si sono messe male e in breve tempo l'impresa ha  iniziato a dimezzare il personale; poi si è ripresa, ma senza di me. Per anticipare i tempi mi ero licenziato per fondare una società di consulenze con Rino, un vecchio compare, convinto di mettere in opera un buon affare. È andata male. Peccato, perché Sergio, che aveva scelto l'altra azienda, adesso dirige la filiale di Roma: lo hanno fatto Cavaliere, è riverito, adulato, conosce mezzo mondo, quello che conta.
Ripensando alle donne, devo dire che mi sono sempre difeso bene. A venticinque anni filavo con due ragazze nello stesso tempo senza mai farmi pescare: una bruna, l'altra bionda, ma dopo un po' ho dovuto fare una scelta. Ne ho maritata una e, a malincuore, ho lasciato l'altra. Mi ha regalato due figli, ma è stato un dono poco indovinato. Tra noi non ci siamo capiti, non hanno mai lavorato, ma altro da fare ne hanno sempre avuto; è uno sbaglio viziarli troppo. Non tutto il male viene per nuocere: prima della mia morte repentina, pagavo ancora i loro alimenti; ora non più, si dovranno adeguare. Mia moglie chiese il divorzio dopo tredici anni di matrimonio. Da una parte fu un bene perché, dopo i fuochi della passione, si è dimostrata frivola e spendacciona: mi è costata sogni e speranze. L'unica consolazione fu che toccò a Rino sopportarla: sì, Rino, il quale, assieme alla mia muliebre, si prese  anche l'altra metà della società proprio mentre iniziava ad andare a gonfie vele. Era intestata a lei: per ramazzare soldi e per mettere su l'attività, a suo tempo, feci qualche stupidata a mio nome con le banche.
A volte penso che se avessi sposato quella bruna... Per consolarla, quando la lasciai, si ritrovò tra le braccia di Sergio, il mio compagno di università. È sempre più bella, la vedevo spesso in video perché ha fatto carriera, è una giornalista seria e presenta il Tg. A quei due è filato tutto liscio, vanno d'amore e d'accordo e sono la favola eterna della cronaca rosa. Fa piacere sapere che sono venuti per il funerale.
La vita è davvero un concentrato di gioie e di dolori: è imprevedibile, inaspettata, bisognerebbe soffermarsi a scriverla prima anziché a leggerla poi, ma noi, fragili esseri, viviamo distratti da troppi crocicchi, dubbi e dilemmi; basta sbagliare un bivio e l'itinerario imbocca il proprio cammino. È grottesco rendersene conto solo adesso. Tornare indietro non si può; bisogna andare avanti, anche se a volte pare che ciascuno segua una strada già segnata.
Per consolarmi mi sposai una seconda volta: con Gina, una compagna di liceo che incontrai nuovamente per un caso che avevo favorito. Fu un attimo di reciproca debolezza: anche lei usciva da una brutta esperienza. Era la più brava della classe, ma se non m'innamorai di lei a diciotto anni qualche motivo ci sarà pure stato. Gina è una brava donna che si occupa di recupero sociale per nomadi, tagliaborse e scippatori tramite l'arte ed il teatro; grande lavoratrice, è sempre in giro per mostre, convegni, meeting e tavole rotonde; il sesso la coinvolge in modo astratto. Ultimamente avevo la casa sempre piena di donne impegnate in pomeriggi di psicologie e di artisti intrigati in discorsi troppo intellettuali per me. Il fuoco si è spento in fretta.
Per fortuna, ultimamente c'era Marisa, incontrata in un bar un anno fa. Aveva un cane, un levriero Afgano di nome Kaasach, "con quelle orecchie e quel naso pare abbia un viso da hippie", le dissi. Lei si mise a ridere, fuori nevicava, non aveva l'auto e così... Giovane, dolce, bellissima, innamorata più che mai; peccato che di lei, di noi, delle nostre notti tra le onde del mare e delle eccitanti evasioni nessuno scriverà mai poesie né canti.
Dopo aver perso la mia società ho fatto parecchi altri lavori, nessuno davvero appassionante, qualcuno persino umiliante, ma il lunario e tutte le sue esagerate pretese l'ho sbarcato sempre. Meno di quanto avrei desiderato. Per fortuna avevo da poco sottoscritto una ricca assicurazione sulla vita che pagherà fino all'ultimo centesimo. Da questo punto di vista, la mia fine è stata una benedizione. Senza la polizza avrei lasciato un mare di debiti: il mutuo per la mansarda di Marisa, quello ben più sostanzioso per la nuova casa piena di quadri metafisici che voleva Gina, le rate della cucina, le prime della moto che avevo sognato da vent'anni e le ultime della romantica barchetta che tengo a Sanremo. Per pagare tutto avrei dovuto lavorare diciotto ore al giorno. Sì, da questa angolazione, lasciarci la pelle adesso è stata quasi una fortuna. Ma fortuna per chi? E quand'è che si dovrebbe prevedere di morire? Ribadisco che per me è stato troppo presto: la polizza avrebbe potuto intervenire anche un po' più in là!
Proprio adesso che pensavo di potermi godere la moto, la barca e il magico grembo di Marisa per qualche anno ancora... Invece no! Lasciandoci la pelle così stupidamente sono rimasto abbindolato, ma ho risolto i problemi a tanta altra gente: Gina avrà la casa e la cucina a cui teneva tanto, la moto la prenderà Andrea, il primogenito, e la barca l'altro figlio, chissà? Marisa ha la sua piccola mansarda, per fortuna ho pensato anche a lei! Morire non è bello, ma farlo senza lasciare debiti è stato degno di me, sebbene mi stia domandando proprio ora se è una scelta di cui andare veramente fieri. Spero che nessuno trovi cavilli.
Il funerale sta iniziando. Non vi sono fotografi e neppure giornalisti, ma c'è più gente di quanta potessi immaginare. Non c'è molta sofferenza nell'aria, ma qualche dispiacere sì. Il  pingue sacerdote ha l'alito pesante, non dovrebbe mangiare certi cibi prima di una funzione così importante. Bella la bara, complimenti! Almeno su quella non si è badato a spese: in un certo senso sto godendo anch'io dell'assicurazione. Sul sagrato, lì davanti, siede Gina con le sue amiche, tutte eleganti; di fianco ha un tizio, un pittore che girava per casa. Le tiene la mano: meno male, poverina... Dall'altra parte ci sono i miei ragazzi, ben vestiti anche loro e, naturalmente, c'è quel fetente di Rino con la mia prima consorte. Si guardano poco. In fondo scorgo Sergio con la mia mancata sposa appoggiata al fianco. È davvero sempre bella, tra le tante, la sua è la sola anima che piange veramente. Fu con lei che feci l'errore più grosso. Ora lo so.
Fa piacere vedere che sono venuti anche molti colleghi di lavoro, alcuni naviganti da Sanremo e un gruppo di gentiluomini con i quali, ultimamente, andavo a spasso in moto camuffato da duro, come non sono stato mai. Marisa non la vedo, ma so che c'è. È appena fuori dalla chiesa, non se la sente di entrare e poi non potrebbe, non è concesso al cane. Con lei c'è il caro amico Piero. Da quando era tornato nel vecchio quartiere, ci vedevamo ancora per una partitella tra grigi, stagionati, stempiati appassionati del pallone e lì facevo ancora la mia bella figura. Forse è il solo a cui ho raccontato tutto di lei, di noi. Marisa ha le lacrime agli occhi e Piero è davvero commosso. Persino il vecchio Kaasach sembra dispiaciuto. Lui lo accarezza e mentre le porge un banale fazzoletto di carta le sussurra: "con quelle orecchie e quel naso pare il viso di un hippie". Lei sorride appena. È ancora un bell'uomo il Piero, un ex atleta, astuto di sicuro. Meglio lui che un altro. Nevica, mentre il mio feretro entra nella limousine già stanno camminando tutti e tre verso l'altra parte della strada.
La mia vita è stata ed è finita così, nel suo arco temporale, senza grosse imprese, senza grossi sbagli. Mi ha riservato qualche piccola gioia, parecchia ipocrisia, un po' di illusione, più d'una delusione: da qui la vedo tutta. Non ho lasciato grossi segni del mio passaggio sul nostro bellissimo pianeta. Confesso che lo avrei voluto, forse potuto, eppure sono esistito, ora non esisto più. Non sono arrivato vivo all'età della pensione, ma ho pagato i contributi per un nutrito drappello e mi sento quasi un fesso. Non feci mai del male, andai poco a messa ed ora scoprirò se fu un errore, ma sento che non è stato così. Non ho mai approfittato delle debolezze della gente, è un particolare poco usuale, da qualcuno criticato. Forse non sono mai stato baciato dalla dea fortuna, forse era destino lottare molto, ma vincere mai, andare a morire per sbrigarmi e non perdere la semifinale Milan-Manchester: suona quasi da cretino, ma è andata così. Non mi sono mai arrabbiato veramente, non ho rimorsi, parecchi rimpianti sì. Ma adesso basta recriminare, sono arrivato. Mi hanno riservato un loculo e vedere il catafalco sparire in quel buco nero mi fa effetto. La gente se ne va, spero che ogni tanto qualcuno si ricordi di portarmi un fiore, anche se non capisco più se è così importante, se ne vale la pena e poi, che ne sarà di questo strano e inconsistente rimasuglio di me pensante? Adesso mi sento strano, sempre più leggero, sempre più distante... In tutta questa confusione ho dimenticato una cosa importante: qualcuno che mi sa dire com'è finita la partita?
 
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