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La costruzione sociale dell'identità di gruppo attraverso la fotografia del rito funerario

Nella storia umana, la fotografia ha determinato un importante passaggio rispetto alla possibilità delle persone di pensare alla propria immagine. In particolare l’atto del fotografare, nell’intera gamma delle sue implicazioni, è oggetto di riflessione, di autocoscienza, di racconto. Da quando è diventato possibile sottrarre al tempo istanti di vita e consegnarli, affinché rimangano intatti, alla memoria visiva si è trovato il modo di testimoniare le forme dell’essere stati presenti. Ognuno infatti pensa a se stesso non solo per come ricorda di essersi visto allo specchio, ma specialmente per come la macchina costruisce l’immagine legandola ad un contesto di esperienza. Nei primi del Novecento questa operazione era strutturalmente legata al canone pittorico neoclassico e la fotografia ancora doveva conquistare un principio diverso da quello della riproduzione fedele della realtà. Eppure, proprio l’aderenza alla norma estetica ha contribuito a rafforzare - come in precedenza la pittura e la scultura - l’immaginario trascendentale rispetto alla visione dell’essere al mondo e dell’incarnare una immagine.
Se per identità intendiamo ciò che persiste nel cambiamento, la regola fotografica stabiliva che cosa del visivo esprimeva l’identico capace di superare il divenire degli eventi. Per questo la fotografia si è rivelata essere uno strumento essenziale per ritrarre i momenti fondamentali della vita attraverso gli snodi che le religioni consacrano come riti di passaggio. Battesimi, comunioni e matrimoni sono certamente spazi in cui l’umano negozia con il sacro la propria presenza nel mondo e la fotografia ne sancisce l’identità, ovvero il permanere del significato che oltrepassa la contingenza dell’attualità. A partire dall’Ottocento dunque il ricordo dell’esperienza di un momento collettivo non è più un esito sommatorio di narrazioni condivise o di una analisi specialistica di chi sa raccoglierle e catalogarle con lavori d’archivio, ma un messaggio iconico raggiungibile visivamente in forma svincolata dalle istanze soggettive e dalle loro deformazioni.
In tutta l’evoluzione della ritrattistica legata alla sacralità dei riti di passaggio che raggiunge l’epoca contemporanea, ove spesso la fotografia è accompagnata se non addirittura sostituita dalla ripresa filmica, è possibile rintracciare un aspetto del ricordo che è svanito con il tempo: la documentazione fotografica del funerale. Per poterne rintracciare la presenza testimoniale abbiamo effettuato una ricerca in Brasile. La scelta di questo Paese è legata al fatto che si tratta di una terra i cui abitanti sono costantemente impegnati nella costruzione della propria identità, legata per un verso all’appartenenza di gruppi di immigrati che mantengono con il passato le radici di un linguaggio mai del tutto dimenticato e per l’altro alla costruzione di un futuro capace di erigere una simbolica integrazione tra le diverse provenienze. In questo articolo, il primo di una serie che documentano una ricerca ancora in corso, rivolgiamo la nostra attenzione alla regione di Rio Grande do Sul e all’uso della fotografia che ritrae il rito funebre come costruzione dell’identità del gruppo che si raccoglie intorno alla salma.
Il Brasile oggi conta oltre 25 milioni di residenti di ascendenza italiana. La presenza italiana è molto forte e ha contribuito a rendere questo stato uno dei più avanzati sul piano economico e sociale. In particolare tra Triveneto e Rio Grande do Sul si è creato, con il tempo, un rapporto intenso di scambio di persone, di cultura e di forme di produzione. La storia di Rio Grande do Sul è caratterizzata dall’essere stata - similmente a tutto il Brasile - fortemente segnata dall’immigrazione, determinata dalla ricerca di lavoro da parte di migliaia di persone che in Europa non trovavano più condizioni di vita sufficienti e necessarie per garantire a loro stesse e ai propri figli un futuro sicuro. Sebbene il 1875 sia la data che convenzionalmente viene riconosciuta come inizio di questo fenomeno, è già a partire dall’Unità che l’emigrazione italiana - causata dalla difficile situazione economica - diventa una realtà importante. Nell’arco di tempo compreso tra il 1890 e i primi decenni del Novecento vengono raggiunte le dimensioni più ragguardevoli, assumendo i tratti del pionierismo a causa delle gravi difficoltà che gli emigranti dovettero affrontare. Viene stimato che, tra il 1875 ed il 1914, entrarono in Brasile circa 100 mila italiani. Sul totale degli immigati, approssimativamente sembra che il 54% erano veneti, 33% lombardi, 7% trentini, il 4,5% friulani ed il restante 1,5% di altre regioni. In tale periodo il Sud del Brasile venne raggiunto da gruppi provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia e dal Triveneto, i quali eressero delle vere e proprie “colonie” a Conde d’Eu e a Dona Isabel, che attualmente corrispondono alle aree di Bento Gonçalves e Garibaldi. Fondata nel 1890, Caxias do Sul, che si inscrive interamente in questo scorcio, oggi è abitata per quasi l’80% da discendenti di immigrati veneti.
Il tipo di vita che era imposto agli emigrati tra Ottocento e prima metà del Novecento era estremamente duro, a causa dell’assenza quasi assoluta di una struttura ambientale sufficientemente urbanizzata da garantire il permanere delle abitudini assunte in Italia. L’attività predominante iniziale con cui hanno iniziato a trasformare quel nuovo mondo era principalmente di tipo agricolo e con il tempo si è evoluta raggiungendo importanti traguardi nella produzione industriale. La grande predominanza di Veneti ha fatto attecchire il loro dialetto che, fondendosi con quelli provenienti da altre regioni e arricchendosi di espressioni locali indicanti realtà inesistenti in Italia, ha dato forma a una lingua particolare che viene chiamata “veneta” o “talian”. L’operosità veneta ha permesso che tale regione divenisse una tra le più prospere dell’intero Brasile; si pensi che oggi nel Rio Grande do Sul si concentra quasi il 9% del PIL nazionale.
Il sentimento della perdita che permette la trasformazione, ovvero la poetica dello stato migrante che ripristina la stanzialità nell’altrove attraverso l’elaborazione collettiva del ricordo, costituisce la cifra del sentimento brasiliano. Tale sentimento viene chiamato “saudade” ed è inizialmente emerso da una vera e propria lotta per la sopravvivenza, poiché il mondo occidentale conosciuto e lasciato alle spalle era ancora tutto da ri-costruire e reinventare. Il vissuto di perdita era infatti profondo e molto forte era la volontà di sopravvivenza che comunque si rendeva evidentemente possibile per la notevole ricchezza del territorio.
La fotografia è stato dunque lo strumento a cui, per un verso, è stato affidato il compito di esprimere la ricostituzione di ciò che era vissuto come perso e per l’altro rafforzare la raffigurazione della presenza in atto del gruppo.
Nella prima metà del Novecento l’urbanizzazione era giunta ad un livello tale che garantiva una vita molto simile a quella abbandonata in Europa: i gruppi che costituivano le nuove e sempre più popolose città hanno iniziato a descrivere, con l’immagine fotografica, la propria identità in ogni momento canonico, riconosciuto come istante unificante in un momento di passaggio (rito sacro). Gli emigranti hanno infatti visto nella fotografia uno strumento che permetteva loro di riconoscersi come portatori di una identità che poteva essere ricontestualizzata e, nello stesso tempo, inevitabilmente modificata, come fondazione di una nuova espressione identitaria. In tal senso ogni momento fotograficamente ripreso definiva il passaggio da una radice passata alla sua ricollocazione in una nuova terra. A questo processo di co-costruzione della medesimezza di gruppo corrisponde la celebrazione, negli usi e nei costumi locali, dell’epopoea migrante espressa con canzoni, con sagre, con poetica e con ampia produzione letteraria ed accompagnata da una documentazione fotografica che si inscrive come tecnica della ricostruzione/mantenimento del legame di sangue dei nuclei familiari, spesso smembrati e difficilmente ricomponibili. In tal senso, la fotografia manteneva la presenza di chi era lontano e descriveva le nuove identità che davano vita a nuove geografie sociali.
La religione costituisce, in ogni parallelo del mondo e lungo tutta la storia umana, un punto di riferimento che consente di guardare il contesto di appartenenza degli individui permettendo loro di collocarsi nella rappresentazione del proprio rapporto con gli altri a partire da un punto di vista metafisico, ovvero trascendentale rispetto alla contingenza degli eventi della vita. Se dunque i reportage fotografici per i momenti cerimoniali canonici si presentano come momento di continuità tra Europa e Brasile della definizione delle biografie familiari, una speciale usanza prende piede e trova ampio spazio di crescita a Rio Grande do Sul: la ripresa fotografica dei riti funebri, di cui in questa prima parte del nostro resoconto, vogliamo rendere testimonianza.
A Caxias do Sul abbiamo reperito significativi documenti fotografici che ritraggono il defunto e la cerimonia funebre. Ne presentiamo una rassegna iniziale che evidenzia quanto discusso. Tutte le immagini sono di proprietà dell’Archivio Storico Municipale João Spadari Adami di Caxias do Sul-Brasile.
Nella prima fotografia, dei primi anni del Ventesimo secolo, è ritratta una anziana signora. Il contesto è decoroso, ma di estrema povertà a testimonianza delle fatiche che provavano gli abitanti della Regione. È interessante osservare che nel suo valore culturale il fotografare diventa un atto gratuito e spontaneo che nasce da un moto affettivo in un gioco di sguardi in cui la molteplicità delle forze al lavoro (chi scatta la foto, chi la riceve, chi la guarda) creano il significato ultimo della fotografia.
La bambina ritratta in figura 2 è Aurora Zanotelli. L’immagine è stata scattata nel 1910 da Domingos Mancuso, fotografo della Colonia Caxias. Il coinvolgimento di un professionista conferma l’importanza di questo momento ed anche una interessante evoluzione dello strumento. Si assiste infatti ad un passaggio che tocca la tecnica: se lo scopo dell’immagine fotografica nell’Ottocento era quello di affinare modalità sempre più puntuali di registrazione del reale in un rapporto ancillare con la pittura, nel Novecento l’uso dei procedimenti fotografici andava massificandosi. Tale elemento metteva in crisi i fotografi professionisti e favoriva l’emergere di alcune personalità dedite ad un uso più elitario dello strumento. La figura 2 ne è la testimonianza. Si osserva infatti che sono stati fatti indossare gli abiti migliori e che il corpo è ornato e truccato come un angelo ricoperto con veli impalpabili, con corone e con fiori. Questa fotografia trascende gli elementi oggettivi e meramente rappresentativi quasi a donare alla famiglia un angelo custode che ha il compito di proteggerla in quegli anni particolarmente avversi. Altro elemento da rilevare è che tra le fotografie analizzate quelle di numero maggiore sono di bambini. La mortalità infantile era molto elevata a causa del contesto di abbandono e di miseria della Colonia. A questo si associano le numerose epidemie che hanno colpito il Brasile nei primi anni del Novecento.
Nel retroverso della fotografia 3 si legge “al signor Agostino Cambruzzi. A richordo de mia nora Giuzepine”. La comunicazione del decesso attraverso la fotografia riporta un momento che non è presente, ma richiama il già stato, è la traccia di un prima che porta con sé i segni tangibili dello svolgersi. Allo stesso tempo, l’immagine spedita oltreoceano dava il senso ai familiari rimasti in Italia dello scorrere della vita in terra brasiliana. L’immagine infatti va oltre il suo referente, lo rende eterno, lo congela nella rappresentazione, si sostitusce nell’assenza in una sorta di cortocircuito spaziale e temporale. Inviare una foto del defunto ai parenti in Italia era un modo per farlo tornare al paese di origine, per riavvicinarlo alla famiglia, al territorio immaginato, sognato, raccontato, all’affetto più caro che il defunto aveva in vita.
Primo Postali ha scattato la quarta immagine nel cimitero della comunità di São João de Forqueta a Caxias do Sul. Sono ritratti parenti e amici stretti attorno alla tomba di Francisco Rizzi. Anche in questo esempio la fotografia porta la preziosa testimonianza del cerchio affettivo e relazionale intessuto dal defunto. Un altro elemento che si rileva è l’organizzazione in divenire dei cimiteri. La loro costruzione avveniva quasi in modo cooperativo: la terra veniva offerta dal possidente alla comunità così come il legname per costruzione della cappella e dei pochi artefatti presenti. Le avverse condizioni dei primi del Novecento, la mancanza di cure sanitarie, di medici e ospedali ha fatto capire presto che avevano bisogno di un ingrediente in più nella nuova comunità: il cimitero, che spesso ha preceduto la costruzione di cappelle.
INES TESTONI (Università di Padova)
ELIANA RELA (Università di Caxias do Sul)
LORENA ROCCA (Università di Padova)

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