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I cimiteri luoghi per i vivi

E se trasformassimo i cimiteri? Se li facessimo diventare un luogo di ricordo vero, rivolto a tutti e non solo alle persone intime? Se affidassimo alle tombe il compito di raccontare chi racchiudono? Se li facessimo diventare un luogo vivo per vivi, e non un luogo morto per morti?
I cimiteri racchiudono memoria, ma non la diffondono. Sono luoghi puramente emotivi e questo riduce la loro capacità di comunicare. Le lapidi sono fatte per rammentare qualcuno a chi già lo conosceva, non per farlo conoscere agli altri: invece i morti appartengono a tutti. Le fotografie, spesso di inconsapevole squallore, alimentano la commozione di pochi, non dei più, per i quali rappresentano anonime facce disanimate. Le scritte non dicono nulla, evocano la pietà, il dolore, talvolta lo strazio dei sopravissuti, ma trascurano qualunque riferimento al defunto: il nome, il cognome e le date a che cosa servono, se non a un’asettica identificazione anagrafica? Le frasi scolpite - spesso citazioni evangeliche, bibliche, letterarie - sono vaghe e ripetitive. Le dediche – “la tua adorata moglie”, “vedova e figli posero”, “la tua giovinezza spezzata dal destino” – rivelano sentimenti privati che rimangono in un ambito ristretto o familiare. Chi vuol celebrare una persona cara crede che il marmo, le statue, le architetture e i decori diano la misura del rimpianto. Invece la vera celebrazione sarebbe trasmettere agli altri, a tutti, qualche tratto di chi è scomparso, qualche dato personale, perché la sua vita, in qualche maniera, possa prolungarsi anche dopo la morte.
Il ricordo di una persona dura due, tre generazioni al massimo. Si ricorda chi si è conosciuto e già i bisnonni sfumano nell’astrazione storica. Ed è così che le tombe, specie quelle con concessione perpetua – quelle cioè che sopravvivono a sé stesse – vengono nel tempo prima trascurate, poi abbandonate, infine dimenticate. Addolorano certi ferri battuti arrugginiti, certi rovi tenaci arrampicati sulle croci, le pietre sconnesse, le scritte perdute. Sono il segno definitivo che del titolare di quel tumulo si è perso tutto, anche il nome. Come se non fosse mai esistito.
Invece alla memoria intima e familiare andrebbe sostituita, o meglio aggiunta, quella collettiva: così le tombe potrebbero continuare a esprimere qualcosa nel tempo, quasi senza fine. Semplicemente, le lapidi dovrebbero contenere qualche breve notizia di chi commemorano, non importa se ricco o povero, famoso o sconosciuto, potente o debole. Dovrebbero raccontare, informare. Dovrebbero identificare il defunto con qualche tratto della sua vita, il lavoro, i successi, persino qualche debolezza, secondo la sensibilità degli eredi. Anche un anonimo muratore può aver partecipato al cantiere di un edificio noto o alla costruzione di una strada percorsa da tutti. Leggere sulla sua lapide: “contribuì a erigere la stazione centrale” oppure “posò i gradini della scalinata del duomo” darebbe il senso della storia minuta, dell’eredità silenziosa che tutti lasciano e che tutti raccolgono, indistintamente. Leggere: “fu cuoca, cucinò trent’anni per i bambini delle mense degli asili”, “lavorò come idraulico, amò il proprio orto e fu orgoglioso del figlio medico”, “fu ingegnere, calcolò i cementi armati per la costruzione della cupola della cattedrale”, “fu un profumiere noto in Europa, creò fragranze prodotte da marchi famosi”… Di ciascuno c’è qualcosa da dire, tutti lasciano una traccia nella società ed è quella traccia che non deve andare dispersa: nei cimiteri di oggi, purtroppo, accade.
Sfumata la freschezza del dolore, una visita al cimitero è considerata un dovere rituale; e all’inizio di novembre, richiamati dalle consuetudini, tutti affollano i viali di cipressi con animo rispettoso, ma un po’ distratto. Portano un fiore e poi scivolano tra le tombe altrui, con la curiosità che si riserva a qualcosa di insolito, a un ritorno lontano. Ma è curiosità che non ha presa, perché non trova molto di cui alimentarsi. Tutto il resto dell’anno non c’è folla, ma solo lacrime sincere. Poi c’è anche una sorta di turismo cimiteriale che nelle necropoli più celebri è organizzato persino con visite guidate. Ma cosa si cerca? Il monumento d’architetto, la tomba di qualche celebrità, la scultura di un artista famoso; il resto è anonimo e rimane tale. Tranne rarissime eccezioni, mancano nei cimiteri le notizie sui defunti che sono, invece, i veri protagonisti del luogo; così che un filare di tombe è sempre uguale all’altro e percorsi uno, due, tre viali l’interesse del visitatore scema. Gli occhi corrono svelti alla ricerca di qualcosa, ma è già molto trovare indicata, talvolta, l’indicazione di una professione.
Invece sarebbe bello, e avrebbe un forte contenuto morale, andare al cimitero alla ricerca di qualche scoperta da cui trarre insegnamento; passeggiare tra le tombe potrebbe trasformarsi in qualcosa di simile allo sfogliare le pagine di un dizionario o al rovistare in una scatola di vecchie cartoline. Leggere le lapidi potrebbe far ricavare il senso del passato attraverso gli uomini del passato, tutti ormai con pari dignità, anche i criminali. Le tombe dei grandi sono spesso segnalate e riconoscibili e talvolta sono meta di pellegrinaggi. Ma anche un falegname o un impiegato della pubblica amministrazione hanno il diritto di essere ricordati a tutti per chi erano, per che cosa hanno fatto, per quello che pensavano e sentivano, per le loro passioni e per i tratti caratteristici della loro vita: e non di essere semplicemente dei nomi e delle date accompagnati da un messaggio di addio.
 
Paolo Stefanato


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