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Tasso, Gerusalemme liberata

"Dentro a i chiostri de la morte"

Una delle più grandi e giustamente famose storie raccontate da Torquato Tasso (1544 - 1595) nella sua Gerusalemme liberata è certamente quella del cavaliere crociato Tancredi che, disperatamente innamorato della guerriera nemica Clorinda, la uccide per una tragica fatalità in duello. Ne abbiamo già parlato in queste pagine (Amare una donna, darle la morte, salvarle la vita (eterna) n. 6/2005), osservando in conclusione come Tancredi, sopravvissuto al combattimento ma morto in lei ch'è morta, non guarirà mai dalla ferita interiore che il destino gli ha inferto.
E da qui possiamo ripartire: perché la vicenda in un certo senso continua. La morta Clorinda non cessa infatti di essere presente nell'animo di Tancredi, che a stento viene dissuaso dal suicidio, né lo abbandoneranno mai il rimorso e il senso di colpa.
Soprattutto Clorinda ricompare nel corso di un episodio che è a sua volta una delle più geniali creazioni tassiane, quello della "selva di Saron". Gerusalemme è ormai da tempo circondata, mancano ai crociati per la vittoria finale solo le grandi macchine da assedio indispensabili per sferrare il colpo decisivo. Ma il legname necessario non può essere raccolto, perché la selva appunto è di fatto inaccessibile, pervasa da un incantesimo demoniaco: a chi vi si addentri la strada è sbarrata dalla percezione di mostri e di terrificanti prodigi. Essi non hanno esistenza concreta, ma sono l'allucinata proiezione delle paure inconsce di ciascuno. Ciascuno vede là dentro (e questa è la modernissima invenzione di Tasso) ciò che gli fa più paura. Già possiamo immaginare cosa, anzi ovviamente chi vi troverà Tancredi.
Dissoltesi di fronte al suo coraggio le visioni che avevano bloccato gli altri, altra e più insidiosa è la prova, la paura che Tancredi dovrà affrontare: "un'emozione funebre appoggiata a sentimenti vissuti, a persone conosciute e scomparse che ora ci parlano dall'al di là, dall'altro mondo", come scrisse un grande studioso tassiano, Giovanni Getto. In una radura del bosco è un silenzioso ed inquietante paesaggio cimiteriale che gli si apre, con un grande cipresso al centro e misteriose scritte, una delle quali ammonisce colui che osa addentrarsi dentro a i chiostri de la morte. Egli colpisce con la spada l'albero, che sanguina e

Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,
che poi distinto in voci: "Ahi! troppo" disse
"m'hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m'affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne' lor sepolcri offender vuoi?".

"Clorinda fui", dice il fantasma che il demonio ha evocato per sbarrare la strada al guerriero; al di là dell'invenzione narrativa, si tratta naturalmente di quello che modernamente chiameremmo "l'inconscio" di Tancredi, o comunque il suo rimorso, il suo atroce senso di colpa nei confronti della persona scomparsa. Non è in un bosco, è nel profondo della sua psiche che Tancredi si inoltra; e il confronto con ciò che vi trova, il volto della persona morta per causa sua, è insostenibile; la ferita interiore è inguaribile.
La spada cade di mano al giovane sconfitto; ad altri toccherà rompere l'incantesimo della selva.
 
Franco Bergamasco

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