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La Bohème di Puccini e noi

Quando, sullo sfumare di un accordo minore in pianissimo, cala il sipario che chiude l'ultimo "quadro" della Bohème di Giacomo Puccini, spesso l'applauso - che poi diventerà fortissimo - stenta un po'a partire (e questo è, paradossalmente, anche il sintomo di una buona esecuzione). Qual è il motivo? La maggior parte degli spettatori ha un nodo alla gola, parecchi stanno praticamente piangendo, i pochi immuni da fenomeni di questo genere sono quelli che sostanzialmente non hanno capito cos'è ciò che hanno visto e sentito. Ciò accade pressoché invariabilmente (se il cast è all'altezza) dal 1896 a oggi, e accade spesso, se è vero che questa è, in tutto il mondo, l'opera più rappresentata dell'intero repertorio melodrammatico.

Ma perché si finisce per piangere, quando si va in un teatro d'opera a vedere la Bohème? Certo il libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, tratto dal romanzo dal Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger, contiene tutti gli ingredienti atti a suscitare quello che un po' spregiativamente si potrebbe chiamare l'effetto patetico: i quattro giovani bohémiens - un poeta, un pittore, un filosofo e un musicista - vivono spensierati e squattrinati in una soffitta sotto "i cieli bigi" della capitale francese, quando per uno di essi, il poeta Rodolfo, l'amore fiorisce irresistibile dall'incontro casuale con la personcina semplice di una vicina di casa, Mimì. Gli amori (c'è anche quello fra il pittore e la volubile Musetta) vivono, cadono, rifioriscono tra slanci e gelosie, abbandoni e precarie riconciliazioni, sullo sfondo allegro del Quartiere Latino, ma anche su quello squallido di una periferia, mentre l'inverno stringe sempre di più la sua morsa. Mimì è ammalata del più classico dei mali ottocenteschi, la tisi; Rodolfo la lascia più per l'impossibilità di assisterla adeguatamente in quella fredda soffitta che per gelosia; nel finale Mimì torna in quella soffitta perché vuole morire vicino all'uomo che ama e agli altri pochi amici della sua piccola vita.

Non si tratta però solo di un meccanismo narrativo che scatta alla perfezione e produce i suoi effetti, e nemmeno solo dal senso fortissimo di autenticità espresso dalla musica di Puccini. Forse può essere uno scrittore, Enzo Siciliano, a portarci nella sua bella biografia di Puccini sulla strada giusta: "la giovinezza è un momento del vivere, splendido per inconsistenza e non per altro, così che quando pare di averlo afferrato, sparisce"; passioni, rabbie, scherzi, pochi soldi, vita in comune, allegria, delusioni, speranze: questo è la Bohème, e, al di là della trama e dei personaggi, cos'è tutto ciò se non la giovinezza, come ogni spettatore istintivamente sente?

Nell'ultimo quadro dell'opera non ci immedesimiamo solo nella morte di un personaggio; quando muore Mimì è tutto quel mondo che si spegne, nel cuore di tutti i personaggi e anche nel nostro, perché quello che noi spettatori viviamo non è altro che il sentimento della morte della giovinezza. Quella di ognuno di noi; è di questo che in realtà parla la Bohème, ed è per questo che ogni volta abbiamo un nodo alla gola.
 
Franco Bergamasco

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