- n. 2 - Febbraio 2011
- In ricordo di...
La scomparsa di Maria Schneider
Una attrice, un simbolo
Due soli film "importanti", quanto basta per rimanere viva per sempre.
Non è una bella cosa trovarsi a ricordare certe icone che hanno segnato lo scorrere del nostro tempo: gente di cinquant’anni e più, gente ormai matura, gente curiosa che ha assistito al rotolare degli anni seguendo l’avvicendarsi di storie serie e futili con interesse, con attenzione, con desiderio di conoscere e con un po’ di presuntuosa critica.
Non è una bella cosa ricordare il volto di una donna e le metafore esplicite di un cinema erotico a noi proibito e che, proprio per questo, ci fece sognare. Maria Schneider fu per noi, coetanei della sua prorompente sensualità, esattamente quello per cui era stata creata, manipolata e quindi diffusa sugli schermi di tutto il mondo: Jeanne, misteriosa, giovane amante di quel Marlon Brando maledetto, vittima di se stessa e dell’erotica trama, trasposizione e allegoria di un sogno licenzioso del regista Bernardo Bertolucci. Mi viene da immaginare che non fu facile per una attrice alle prime armi confrontarsi con un mostro sacro di Hollywood, ma penso che, forse, in quella opera cinematografica rimasero immortalati entrambi con pari merito.
“Ultimo tango a Parigi” fece scandalo in tutti i cinema del mondo civilizzato, censurato a causa di scene di sesso definite fini a se stesse e per questo divenute leggendarie, immortali. Fu censurato privando noi, giovani rampolli italiani di quei primi anni ‘70, della visione di certi giochi erotici che a quel tempo fecero accademia, non di cinema, ma di fantasia, per sentito dire di prestazioni estreme e spinte. Immagini esplicite dell’amore proibito alle quali fu impresa dura rinunciare. Cose che a diciotto anni solleticano curiosità più che critica cinematografica e filosofica cultura. Amore proibito, cose che si sanno, cose che si fanno, ma che lo schermo del cinema e le sue tante lusinghe sanno rendere ancor più morbose e desiderabili. È proprio per questi motivi che, in un modo o nell’altro, qualcosa di quel film a quel tempo noi la si vide, perché non è facile far fessi i giovani quando hanno superato le insidie del liceo. Si fu rapiti da una ragazza bellissima: il colore della sua pelle, le forme dei suoi giovani seni prorompenti, i suoi amplessi nell’atmosfera complice della modesta camera in affitto, invidiando Brando. Tutto il resto era solo contorno. Fa piangere l’anima ritrovarsi a pensare che, per quel ruolo privo di inibizioni a quel tempo più severo, una donna così particolare e desiderabile e un talento naturale di bravissima attrice siano stati inchiodati a quell’immagine erotica per tutta la vita.
Non compresi allora i motivi per cui non ebbi più occasione di rivedere Maria Schneider in altri film, tranne uno. Mi è più chiaro oggi che, in ritardo come sempre e solo in occasione di tristi dipartite, fugacemente la stampa ne parla contribuendo a riempire i propri spazi. Ricordo che apprezzai molto quella sua figura, nuovamente di giovane amante di un altro simbolo irrequieto del cinema americano, quel Jack Nicholson in fuga da se stesso, e lei accanto, nella oscura e conturbante trama di
“Professione reporter” del maestro Michelangelo Antonioni. Un giallo enigmatico, un’opera che apprezzai, che rammento imperniata sul malessere del vivere, sull’ironia della sorte e ambientata nei tempi lunghi e negli spazi aperti del deserto. Fui rapito da quel film poco noto almeno quanto dalla conturbante bellezza della giovane attrice, domandandomi perché avevo dovuto attendere più di tre anni per vederla recitare di nuovo.
Mi piacque tantissimo, ma poi di lei e di quel ruolo che ormai le si era cucito addosso non seppi più nulla. Ogni tanto mi accade di ripensare a quelle scene che, per oscuri motivi, la polimorfa televisione odierna non rispolvera e non ripropone. Misteri della mia mente, di un uomo che si scopre debole di fronte a figure femminili istintivamente seducenti, impulsive, provocanti, insolite nella loro atipica bellezza. Mezze consapevoli infatuazioni che sfiorano un po’ tutti. Personaggi impressi per sempre nella memoria e in qualche oscura, inafferrabile, indescrivibile, umana voglia.
Mi piacque molto come donna e come attrice: mi affligge venire a conoscenza con giustificato ritardo del sofferto perché di una carriera così breve e limitata, destinata ad rare e brevi parti in titoli di minor riscontro, e di altri particolari di una vita irrequieta. Mi dispiace scrivere ora per ricordare di lei la morte. Preferisco conservare l’immagine di una giovane donna che, dispersa tra gente africana, si dirige verso un incerto destino. La ricordo passare di fianco a un pozzo, con bianche case arabe sullo sfondo, lasciandosi alle spalle il cadavere di un uomo in un’altra stanza. Immagini che mi ritornano alla mente, forse non troppo fedeli, forse confuse, ormai lontane; non così il suo volto. Immagini di una attrice che se ne va lasciando dietro sé quella che non sarà mai la carriera cinematografica che avrebbe meritato a tutti gli effetti. È davvero stupido confessare che avrei voluto baciare la sua bocca per una volta almeno. È davvero stupido confessare che ci si può innamorare di un volto che passa sullo schermo e desiderarlo, desiderare di appartenere alla sua storia per farne un’altra più bella.
È questo in fondo il fascino del cinema ben fatto. È questo il suo prodotto: generare emozioni, trascrivere storie e sentimenti, estreme avventure e sogni. È il ruolo dell’attore quello di entrare nella parte, rappresentare e poi diffondere il gesto, il luogo e il tempo che non esistono se non come finzione dipingendoli per veri, e rapire quella parte dell’uomo che si lascia andare all’onirico fantasticare. Il cinema è un’arte e Maria Schneider una sua meteora che prese un po’ della mia mente e non soltanto quella. Il fatto di rimanere nel ricordo della gente, non nella sua essenza, ma nell’immaginario della finzione recitando in due soli, memorabili film, rende tardivo quanto inconfutabile e immenso merito al suo talento.
Maria Schneider è morta, probabilmente abbandonando per strada e alle angherie dei malanni la propria bellezza, la propria sensualità, la propria immagine. Aveva poco più dei miei anni a quel tempo di burro e di tango: e oggi, che la sua parte sarà recitata su ben altri schermi, scrivo di lei maturo, ma immaginandola come se gli anni non fossero trascorsi. Il film della vita è un prestito che si sviluppa tra il primo e secondo tempo, ma che inevitabilmente si conclude con la parola “fine”. Ciò che ci aspetta nell’aldilà lo scopriremo a suo tempo. Ci hanno raccontato che gli angeli sono asessuati, ma se così non fosse ci sarà un po’ di fermento oltre le nubi. Un certo movimento che potrebbe far sognare altrove per l’eternità.
Carlo Mariano Sartoris