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Quando il corpo รจ un vuoto simulacro

ASSISTENZA DOVEROSA O ACCANIMENTO TERAPEUTICO?

Il progresso scientifico e tecnologico oggi è in grado di allungare le aspettative di vita e di offrire cure palliative anche ai malati terminali. Casi complessi, carichi di implicazioni etiche, giuridiche, scientifiche e religiose, proposti negli ultimi mesi dai media, riaprono il dibattito sul prolungamento forzato della sopravvivenza, sul confine tra accanimento terapeutico, suicidio assistito ed eutanasia. Le questioni più delicate emergono quando il paziente non può esprimere il consenso per incapacità di intendere e di volere causata da malattia o fatto accidentale. Si tratta dei cosiddetti "soggetti in stato vegetativo permanente", quella zona estrema in cui qualsiasi soluzione pare un tormento applicato ad un corpo svuotato, con deboli segnali di vita indotta, totalmente dipendente dal personale medico e assistito dalla pietas dei parenti. Questi malati mantengono le funzioni fisiologiche essenziali, ma non hanno consapevolezza di sé, né delle relazioni con le persone e l'ambiente.

Due casi emblematici a confronto, situazioni analoghe, soluzioni giudiziarie diverse: Terry Schiavo, morta dopo 15 anni di stato vegetativo permanente per embolia cerebrale, dopo la decisione dei giudici di interrompere l'alimentazione artificiale, su domanda del marito; Eluana Englaro, da 13 anni in coma a causa di un incidente d'auto, viva perché i magistrati non hanno accolto la richiesta del padre di staccare il sondino che la nutre. Negli USA la somministrazione di idratazione e alimentazione artificiale è una terapia e quindi può divenire accanimento terapeutico. In Italia è considerata invece un sostentamento minimo vitale, quindi doveroso, tanto che la sua sospensione configura eutanasia passiva.

Le questioni e i valori in gioco: capire quando la perdita di coscienza è irreversibile; assicurare il diritto a morire con dignità, il diritto all'autoderminazione e al consenso informato nelle scelte terapeutiche ed assistenziali in caso di incapacità; distinguere i trattamenti doverosi dall'accanimento terapeutico.

Le diverse tesi trovano composizione nel testamento biologico o testamento in vita, una dichiarazione anticipata di volontà, revocabile in qualsiasi momento, con la quale un soggetto in possesso delle facoltà mentali dispone a quali trattamenti sottoporsi o sottrarsi in caso di incapacità sopravvenuta, quando le sue condizioni siano irreversibili. L'atto prevede l'indicazione di un fiduciario, al quale il paziente affida le scelte che non è in grado di compiere e che risolve le difficoltà interpretative sulle direttive del malato.

Negli USA il testamento in vita è riconosciuto per legge dal 1976, in Inghilterra è un consolidato istituto giurisprudenziale. La Comunità Europea ha adottato solo norme di principio non vincolanti. Spagna, Danimarca e Olanda hanno optato per soluzioni diverse, che riconoscono il diritto di scelte terapeutiche anticipate da applicare in condizioni di salute gravi e irreversibili.

Il nostro ordinamento ha riconosciuto recentemente le dichiarazioni di volontà anticipate meritevoli di tutela come manifestazione delle libertà di pensiero e fede religiosa (articoli 19 e 21 della Costituzione), equiparate al rifiuto di emotrasfusione del testimone di Geova adulto e consapevole delle conseguenze. La legge n. 91/1999 sui trapianti di organi e tessuti, che richiede un'autorizzazione espressa in vita, convalida questo orientamento. Nel 1992 il Comitato Nazionale di Bioetica ha riconosciuto valore alle direttive anticipate. Dal 1998 sono stati presentati diversi disegni di legge sul testamento biologico e il mandato fiduciario in previsione d'incapacità. Lo scorso 12 aprile sono stati proposti emendamenti al disegno di legge n. 2943/2004 "Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento", che potrebbe diventare la terza legge italiana di contenuto bioetico dopo le leggi su aborto (legge n. 194/78) e fecondazione assistita (legge n. 40/2004). È una mediazione alta ed equilibrata tra laici e cattolici, ma apre il problema del contenuto delle disposizioni per escludere forme di eutanasia. Il fondamento è la concezione personalistica della Costituzione, che riconosce valore alla persona in sé e i diritti a integrità fisica, dignità e salute, cosicché la perdita irreversibile della coscienza è il limite di ogni trattamento quando non è possibile una vita dignitosa. Il diritto a morire con dignità è riconosciuto come diritto inviolabile della persona (articolo 2 della Costituzione). Il diritto di rifiutare l'accanimento terapeutico è previsto dal codice deontologico medico, che limita l'operato medico all'assistenza morale e terapeutica atta a risparmiare inutili sofferenze al malato inguaribile. Il problema consiste nello stabilire quando un atto medico diventa accanimento terapeutico. Secondo alcuni sono sempre disponibili: idratazione e alimentazione forzata, pratiche diagnostiche invasive, cure inutili e dolorose su malati terminali. Secondo altri, il rifiuto è lecito solo se configurano accanimento terapeutico e occorre decidere caso per caso. Il contenuto è illecito se autorizza l'eutanasia, perché viola il diritto inderogabile alla vita ed è perseguibile come omicidio del consenziente (articolo 579 del Codice Penale). Tesi estreme sostengono invece che il diritto di morire con dignità consente il rifiuto di ogni sofferenza insopportabile, fino a legittimare l'eutanasia terapeutica, per alleviare le sofferenze e accorciare la vita.

 
Maria Elisa Di Pietro


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