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GLI ANGELI
di San Giuliano di Puglia

Forse la tragedia della scuola che, crollando col terremoto del Molise, ha sepolto bambini e insegnanti è troppo recente perché si possa cominciare a rifletterci sopra e a trarne i dovuti insegnamenti. O forse, invece, è sempre troppo tardi per riflettere sulle tragedie e impararne le lezioni.

Troppo presto o troppo tardi, come sempre accade per le emozioni: se ne siamo ancora sconvolti abbiamo il dubbio di non essere abbastanza sereni per pensarci sopra; se si sono attenuate c'è il rischio che il distacco razionale ci induca a reinventare, falsandolo, ciò che abbiamo vissuto. Stiamo allora sulle emozioni, mentre già passano, e ancora le sentiamo. Tutti hanno pianto per quei bambini che sono rimasti sotto le macerie: i vigili del fuoco hanno mostrato la loro vulnerabilità, i cronisti hanno perso la loro compostezza, gli esperti hanno balbettato banalità, i religiosi hanno avvertito l'inconsistenza delle loro preghiere, i potenti si sono vergognati, il pubblico davanti alla televisione non ha potuto cambiare canale, o ha dovuto perché non ha retto.

Il pianto per quei bimbi per un momento ha umanizzato tutti, tutti avrebbero voluto essere santi, e forse lo sono stati, cioè buoni e miracolosi di fronte ai piccoli angeli che vedevano salire in cielo.

Ma oggi la condizione di santo è la più difficile da sopportare: bisognerebbe credere nella possibilità di amare disinteressatamente gli altri e difenderli dalle minacce della vita e dalla morte anche contro i propri interessi. Ma bisogna seppellire i morti e tornare a vivere. E allora i vigili del fuoco hanno cominciato a litigare coi volontari della protezione civile, i cronisti a competere per le immagini più intime e le interviste più toccanti, gli esperti a pensare al ghiotto bottino di articoli e libri che una tragedia simile può aggiungere ai loro titoli accademici, i religiosi si sono messi in prima fila a riaffermare il potere consolatorio della loro fede, i potenti hanno iniziato a fare i loro calcoli elettorali, il pubblico ha ripreso a cambiare canale per puro divertimento, cioè senza assumersi alcuna responsabilità sulle conseguenze sociali del gesto.

C'è però chi non potrà smettere di piangere, chi già dal primo momento ha pianto in modo eccessivo e proprio per questo è stato censurato dai mezzi di comunicazione di massa: le madri dei morti, le madri dei bambini e le madri delle maestre.

Si dice che vige la televisione del dolore e mai come in caso di tragedie collettive questa tesi sembra vera, ma è sempre il dolore privato che può diventare pubblico (perché accetta di diventarlo e perché non è eccessivo) che può essere mostrato. Se si mostrasse il dolore privato che non accetta di diventare pubblico e quello eccessivo tutti cambierebbero subito canale: nel primo caso perché si tratterebbe di una violenta violazione della privacy che avrebbe per molti l'effetto di un film dell'orrore o li farebbe sentire insopportabilmente in colpa; nel secondo perché quasi nessuno nel nostro contesto culturale è educato a sopportare il dolore eccessivo.

Il pianto di coloro che non potranno smettere di piangere, in altri termini, deve esser censurato e represso perché si ritiene, nella nostra cultura, che determinerebbe in tutti una crisi talmente grave da impedirci di tornare a vivere dopo una tragedia. E così coloro che non potranno smettere di piangere per i loro bambini vengono isolati e abbandonati al loro destino. Ci siamo tutti commossi, ci siamo sentiti buoni, e ora, ritemprati da questa catarsi collettiva, dobbiamo tornare alle nostre occupazioni di sempre e ai nostri interessi di sempre, compresi quelli di costruire case abusive che poi crollano col terremoto seppellendo i bambini.

Ma è proprio vero che se ci accollassimo tutti un po' della colpa per le morti ingiuste, come sarebbe se non abbandonassimo quelli che non possono smettere di piangere, non potremmo più tornare a vivere dopo una morte ingiusta, cioè dopo ogni morte? Sostengo, al contrario, che non solo potremmo tornare a vivere, ma sarebbe, la nostra, una vita migliore e migliorerebbe anche la condizione di coloro che non possono smettere di piangere. Innanzitutto, prenderci la colpa per ciò che apparentemente è casuale, come la morte di piccoli e adulti sotto la scuola, renderebbe a tutti (vigili del fuoco, cronisti, esperti, religiosi, potenti e pubblico) impossibile dimenticare il proprio dovere di fronte agli altri; con la conseguenza che il mondo e la vita tenderebbero a soffrire solo delle tragedie derivanti dai limiti oggettivi dell'esistenza umana.

Inoltre, così facendo, coloro che vengono colpiti direttamente dalle tragedie e che piangono eccessivamente si sentirebbero circondati dalla 'compassione' degli altri, sentirebbero che il loro lutto non viene scippato da un mondo che, per continuare a vivere senza cambiare, separa il lutto collettivo dal loro lutto privato; e potrebbero smettere di piangere, non perché costretti ma perché chi può tornare a piangere circondato dalla comprensione degli altri può anche interrompere il pianto per il tempo necessario a ricominciare a ricostruire la vita.

In sintesi, dovremmo continuare tutti a piangere per coloro che sono morti: perché siamo tutti un po' responsabili della loro morte (gli abusi e le ingiustizie di cui siamo testimoni o complici solo per caso non hanno ucciso qualcuno, e potrebbero sempre farlo); e perché in tal modo aiuteremmo coloro che non potranno smettere di piangere i propri morti per tutta la vita a vivere, nonostante la loro tragedia, in un mondo che non solo non li ha abbandonati, ma ha anzi tratto dalla loro tragedia la forza per migliorarsi.
 
Francesco Campione

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